Come fare a cacciare una classe dirigente inetta?

Come fare a cacciare una classe dirigente inetta?

A fine agosto sono apparsi su Repubblica due articoli che parlano delle cause profonde della prosperità delle nazioni, un tema d’importanza urgente per il nostro paese. Le teorie neoclassiche della crescita economica guardano soprattutto al miglioramento del capitale fisico e umano e all’innovazione tecnologica. Queste, tuttavia, paiono essere solo le cause prossime della crescita, e resta la domanda di quali siano le sue cause prime: quali fattori, in altre parole, conducono alcuni paesi e non altri a investire sull’educazione, le infrastrutture e la ricerca?

Quattro risposte sono state date a questa domanda: la cultura di un paese, la sua collocazione geografica e le caratteristiche del suo territorio, la sua integrazione nel commercio internazionale, oppure la natura delle sue istituzioni. Gli articoli di Repubblica trattano della prima e dell’ultima teoria.

La prima tesi è esposta da David Landes nel libro recensito il 29 Agosto da Massimo Salvadori, il cui titolo richiama esplicitamente Adam Smith: La ricchezza e la povertà delle nazioni (1998). Dopo aver illustrato i molteplici fattori che favoriscono la crescita, ricavati da un’ampia rassegna storica, citando Max Weber Landes conclude che «a fare la differenza è la cultura», ossia le tradizioni, i valori, la morale e i convincimenti diffusi di una nazione. I quali sono considerati sostanzialmente immutabili nel tempo, soggetti a lenta evoluzione, e pertanto esogeni rispetto al sistema economico e politico di un paese.

Una risposta diversa è offerta da una scuola di pensiero che prende le mosse dalla rifondazione dello studio delle istituzioni, e fa capo a un altro storico dell’economia, Douglass North. Le “istituzioni economiche”, in questa prospettiva, sono il complesso dei vincoli e degli incentivi che influenzano le decisioni economiche di famiglie e imprese e la politica economica dei governi. E la tesi, in due parole, è che istituzioni che tutelano i diritti sui frutti del proprio lavoro e dei propri investimenti garantiscono il rispetto dei contratti attraverso i quali questi diritti sono scambiati. E inoltre promuovono la libera concorrenza sui mercati, dove questi scambi hanno luogo e favoriscono lo sviluppo economico.

Istituzioni di questo genere sono ritenute efficienti e quindi desiderabili, a prescindere da ogni altro giudizio di valore, perché favoriscono il miglior sfruttamento delle risorse disponibili e quindi accrescono il benessere sociale. Mentre là dove quei diritti sono incerti, gli scambi insicuri e la concorrenza limitata, le risorse sono impiegate in modo inefficiente perché sia l’incentivo ad avviare imprese sia le opportunità d’investimento si riducono (questa tesi, conviene precisare, non presuppone anche la scelta di un determinato modello di società ed è compatibile – come l’esperienza tedesca limpidamente dimostra – con politiche fiscali redistributive o un’estesa protezione sociale).

Anche Landes condivide quest’opinione, che risale direttamente a intuizioni di Adam Smith, ma egli ritiene che la qualità delle istituzioni sia influenzata soprattutto dalla cultura di una nazione. L’altra scuola di pensiero, invece, pone al centro della discussione lo scontro politico tra interessi contrapposti. Le istituzioni economiche determinano non solo l’allocazione (efficiente o inefficiente) delle risorse ma anche la distribuzione della ricchezza che esse generano, e sono il risultato delle scelte politiche della collettività. Di conseguenza, i gruppi sociali che conquistano il governo mireranno poi a riorganizzare le istituzioni economiche in modo tale da ritagliarsi una fetta più grande delle ricchezze della nazione, e grazie ad esse rafforzeranno anche il proprio potere politico.

Per ragioni che tralascio, tuttavia, simili istituzioni sono tipicamente inefficienti: per continuare la stessa metafora, al crescere della sproporzione tra le fette decresce la circonferenza della torta prodotta ogni anno. L’antidoto all’emergere di istituzioni economiche inefficienti (e inique) sta nell’apertura e nel pluralismo del sistema politico, che rendono il potere contendibile e permettono all’elettorato di rimuovere un’élite che persegua politiche dannose alla collettività.

Quindi, se la tesi di Landes, fondata sull’immutabile eredità culturale di un popolo, potrebbe condurre a fatalismo o quietismo politico, questa teoria contiene un implicito richiamo all’impegno politico in nome dell’efficienza economica. Essa è efficacemente esposta in una molto popolare opera di divulgazione scritta da due dei ricercatori che più hanno contribuito a questi studi: Daron Acemoglu e James Robinson, Why nations fail (2012). Questo libro è già stato recensito su Linkiesta nel maggio scorso e non ne parlerò oltre.

Mi ha colpito, invece, leggere che nell’intervista resa a Repubblica il 31 Agosto il ministro Barca usa proprio questa tesi per spiegare i problemi del paese e l’azione del governo. Perché si parla spesso della distanza che separa l’Italia dai suoi pari nella classifica chiamata Doing business, ma un divario significativo esiste anche negli indicatori della qualità della governance, raccolti anch’essi della Banca Mondiale: l’Italia si colloca ben sotto la media dei paesi Ocse non solo per la corruzione, il rispetto della legge e la qualità della regolazione dei mercati e dell’economia, ma anche quanto alla cosiddetta voice and accountability, ossia il grado di pressione che la cittadinanza è capace di esercitare sul governo per ottenere politiche rispondenti ai propri interessi.

Questo dato va preso con cautela, ma, alla luce della tesi di Acemoglu e Robinson, è probabile i fenomeni che esso riflette contribuiscano a molti dei nostri problemi, inclusa l’inefficienza della spesa pubblica e il marcato rallentamento della crescita della produttività della nostra economia. Se i tribunali continuano a essere lenti e la burocrazia inefficiente, ad esempio, e persistono corruzione e inique rendite di posizione, evidentemente i anche canali di trasmissione tra gli interessi della collettività e le politiche attuate dal governo non hanno funzionato bene.

Che il ministro della coesione territoriale sottolinei l’importanza di queste riforme è quindi incoraggiante, perché il meridione può anche essere visto come un’opportunità decisiva: un quarto delle risorse del paese sono ora chiuse in un sistema inefficiente, e potrebbero dare una forte spinta alla crescita se quel sistema fosse riformato. Per tornare alle due tesi ricordate sopra, il problema del meridione non è la sua cultura o il suo modo di vivere ma le istituzioni politiche ed economiche, centrali e locali, che lo reggono.

Concludo con un’osservazione che mi pare implicita in ciò che dice Barca. È noto che per avere più concorrenza, più rispetto per la legge e meno corruzione bisogna affrontare gli interessi particolari che si oppongono a queste riforme: il governo le ha avviate, ma per battere quegli interessi occorre un esplicito mandato politico e una maggioranza coesa su questo obbiettivo. Sta qui il limite congenito di questo governo – eloquentemente dimostrato dall’evoluzione del dibattito sulle misure contro la corruzione – e la sfida con la quale si deve confrontare chi propone un governo di grande coalizione dopo le prossime elezioni, a prescindere dalla questione di chi lo presiederà. 

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