Una cena di raccolta fondi per una campagna elettorale, come tante se ne fanno, si è trasformata un boomerang per Matteo Renzi. L’incontro con la business community milanese era organizzato da Davide Serra, fondatore e partner di una società che gestisce anche alcuni fondi domiciliati alle Cayman. Cayman uguale paradisco fiscale, uguale narrazione di evasione e riciclaggio, per dirla alla Vendola, che è l’altro candidato alle primarie (la quarta è Laura Puppato). Pier Luigi Bersani, che è, diciamo così, l’incumbent nel mercato delle primarie del Pd, ha subito acchiappato l’occasione regalata da Renzi e ha attaccato, («Chi ha base alle Cayman non potrebbe dare consigli»), evocando un mondo fumoso fatto di navi pirata della finanza cattiva e navi corsare dell’altra finanza cattiva, quella del sistema. Mentre Renzi si è detto disponibile a parlarne, Serra ha risposto con una lettera aperta e minaccia di querela perché Bersani gli ha dato del bandito, anche se la sua frase era un «bandito fra virgolette».
Si tratta di capire quanto larghe siano queste “virgolette” a cui allude Bersani. Stavolta, l’occasione la regala Bersani: quella di aprire una seria ricognizione e un dibattito non strumentale. Su come la sinistra ha concepito il rapporto con la finanza da metà degli anni ’90 fino a questi giorni. Giusto ribattere che anche l’editore dell’Unità ha una fondazione alle Bahamas e ha scudato, grazie a Tremonti, 200 milioni di euro, tornati tornati a casa da Liechtenstein. E giusto ricordare che i “capitani coraggiosi” alla conquista di Telecom con la benedizione dal governo dell’allora premier Massimo D’Alema avevano la loro base in Lussemburgo, e hanno avuto non pochi grattacapi con il fisco.
Ma i rapporti che la sinistra di partito e delle istituzioni ha praticato con finanzieri e banchieri sono ben più ampi e articolati. Si diceva di Telecom Italia, come è andata a finire l’avventura iniziata nel ’98? L’azienda è schiacchiata dai debiti, è passata di mano fra gente troppo indebitata – i capitani coraggiosi di Roberto Colaninno, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’attuale gruppetto di banche –, è stata smembrata, è strategicamente impatanata. I problemi di Telecom sono purtroppo problemi di tutti: anche di chi non è né azionista né dipendente né cliente. I ritardi dell’Italia sulla banda larga, i costi che l’economia subisce, abitano da queste parti. La folgorante battuta di Guido Rossi su Palazzo Chigi ai tempi di D’Alema come unica banca d’affari dove non si parla inglese, ha fotografato un mondo. Erano tempi in cui non si ponevano problemi di sobrietà: così il primo premier ex comunista della storia italiana poteva sfoggiare una barca a vela in comproprietà, la Ikarus.
Saltando di infrastruttura in infrastruttura, si potrebbe arrivare alle opere edilizie in quel di Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. A Filippo Penati, il consigliere regionale, ex presidente della Provincia e già capo della segreteria politica di Bersani Filippo Penati, che nelle carte della Procura di Monza è diventato l’eponimo di un sistema di corruzione, concussione e finanziamenti illeciti alla politica. Con il contorno immancabile di costruttori (spicca il gruppo Gavio e il suo frontmen Bruno Binasco), di imprenditori amici (i vari Intini e De Santis, ritenuti vicino a D’Alema) e di coop. L’affare dell’autostrada Milano-Serravalle, apogeo della finanza di provincia targata Penati, è finito anch’esso sotto esame della magistratura. Non perché la provincia di Milano abbia fatto un affare.
Se le virgolette di Bersani sono sufficientemente flessibili, allora ci si potrebbe mettere dentro anche tutta la vicenda Antonveneta e Bnl. L’«abbiamo una banca» di Fassino, poco prima che la scalata di Unipol alla Bnl deragliasse sui binari giudiziari, è passata agli annali, insieme con gli affari di Giovanni Consorte (all’epoca a.d. di Unipol). Ma a Bologna, sede del gruppo assicurativo controllato da quel mondo di cooperative che Bersani conosce bene, hanno imparato la lezione. E in questi giorni Unipol sta concludendo un affare, l’acquisizione e la fusione con FonSai, che ai risparmiatori è costato l’azzeramento di un valore di 300-400 milioni di euro. Stavolta Guido Rossi era dalla loro. E loro soccorrevano la banca d’affari del sistema, Mediobanca, una di quelle che alle Cayman non andrebbero, ma a Montecarlo sono di casa.
Di città in città si arriva oggi a Siena, città da cui nelle prossime settimane potrebbe partire un terremoto che rischia di travolgere mezzo establishment ex Ds ed ex Margherita del Partito democratico. Negli ultimi decenni qui la politica ha esecitato un forte potere di indirizzo e di veto sulle strategie, sulle alleanze e sugli affari della Banca Monte dei Paschi di Siena. E ne ha nominato i vertici. Mps era brillantemente sopravvissuta per cinque secoli: alla conquista di Siena da parte di Firenze, alla peste, alle guerre, al crollo di Wall Street nel 1929, a tre guerre di indipendenza e due conflitti mondiali. Poi sono arrivate le grandi acquisizioni “ispirate”: prima la pugliese Banca 121 (anche qui citofonare D’Alema), poi quella fatale, Antonveneta, complessivamente costata non meno di 10 miliardi. D’Alema, Walter Veltroni, Giovanni Berlinguer, Giuliano Amato, Franco Bassanini, Rosi Bindi, per il tramite dei loro referenti locali (v. altro pezzo), hanno avuto voce in capitolo a Rocca Salimbeni. La Fondazione ha bruciato quattro miliardi di patrimonio. La banca è oggi nelle more di un salvataggio. La Procura di Siena sta indagando sull’acquisizione della banca padovana. Anche qui si può parlare di «banditi fra virgolette»? Oppure è il momento che tutti i candidati alle primarie ci dicano cosa pensano del passato e soprattutto come vedono nel futuro il rapporto con la finanza e con i banchieri?
Twitter: @lorenzodilena