“Se siete renziani, però, è giusto dirlo chiaramente”. In soldoni, è questo il messaggio che ci ha spinti a scrivere quest’articolo. Qualche commento in tal senso lo abbiamo ricevuto, ma anche qualcuno che di politica vive ci ha mosso la stessa questione. E quindi il tema esiste e vale la pena affrontarlo.
Il titolo è facile: no, non siamo renziani. Ma lo svolgimento richiede qualche parola in più. È il caso di partire dalla base de Linkiesta, dall’idea originaria. E francamente un giornale che si picca e si vanta (perché noi ce ne vantiamo) di non avere padroni, di aver messo una struttura societaria che in Italia non esiste, vale a dire la public company (in cui nessuno può avere più del 5%), di pensarci su un bel po’ di tempo prima di allargare la struttura a un socio nuovo, poi che fa, si mette in coda al politico di turno, sia pure in ascesa? Beh, sarebbe più ridicolo che imbarazzante. Allora avremmo fatto bene a risparmiarci un bel po’ di tempo ed energia.
Certo, non avere padroni non vuol dire evitare di pensare. Le nostre idee su come un Paese debba essere governato le abbiamo. E non ci sarebbe nulla di male se un candidato riuscisse a presentare un programma e a condurre una politica che sposasse quasi completamente i nostri desiderata.
Va però detto, con altrettanta chiarezza, che fin qui non è avvenuto. Certo, qualcuno ci piace di altri. Su tutti, possiamo scrivere, ci piace Elsa Fornero, un “non politico” cui di certo non difetta il coraggio. Ma salutammo con benevolenza il governo Monti, cui abbiamo tributato elogi quando ci è piaciuto senza risparmiare critiche quando invece ci ha deluso.
Ma torniamo al casus belli: le primarie del Pd. Vale la pena fare un passo indietro, nemmeno tanto lungo. E ricordare cosa sarebbero state senza la candidatura di Renzi: un bagno di folla per il solito candidato unico. Perché, va detto, e lo ha scritto chiaramente Peppino Caldarola, queste sono le prime primarie vere del Pd, dove regna una certa incertezza. Furono inventate per offrire un’investitura popolare a Romano Prodi, ma di fatto del partito si candidò solo lui. Ed è sempre stato così.
Le recenti elezioni amministrative, invece, hanno dimostrato che laddove c’è stata competizione vera il risultato nelle urne è stato sempre positivo. Milano ne è l’esempio più eclatante. E noi crediamo che la concorrenza faccia bene, in politica come in economia. E a Renzi, come scritto perfettamente qui da Jacopo Tondelli, va riconosciuto un merito innegabile: ci ha risparmiato quella ipocrita messinscena in cui in realtà ciascuno sapeva perfettamente quale ruolo gli sarebbe spettato.
Se questo vuol dire essere renziani, allora lo siamo. Ci sembrava e ci sembra ineludibile il tema del rinnovamento della classe dirigente. E poiché nessuno andrà mai a casa di sua sponte – almeno questo la storia italiana ci ha insegnato –, la competizione (che non è una parolaccia) resta l’unica via da seguire. Una via sana, democratica: chi prende più voti, vince. La parola agli elettori.
Poi si può entrare nel merito. E il merito, almeno a livello comunicativo, propone ogni giorno lo stesso tema: un Renzi mediaticamente di rottura e un Bersani che arranca, che sembra spento, ricurvo nel tentativo di arginare l’onda fiorentina. Talvolta ricorrendo a stratagemmi che sanno di vecchio, come sta accadendo per le regole delle primarie. Del resto è stato proprio lui a volerle. E ora sembra invece esserne travolto. E la colpa non è certo nostra.
La verità è che a noi Bersani è simpatico. In cuor nostro lo consideriamo non meno innovativo di Renzi cui peraltro non abbiamo risparmiato critiche. Ma il segretario del Pd si è assunto l’ingrato compito di caricarsi sulle spalle un intero carrozzone di cui francamente non avvertiamo più l’esigenza e che rischia solo di nuocergli, come dimostra la recente lite Renzi-D’Alema. Perché non si scrolla tutti di dosso, come ha fatto alla festa nazionale dell’Unità, quando non ha fatto salire la nomenklatura sul palco con sé?
Non è colpa nostra se la strategia mediatica di Renzi funziona e quella di Bersani no. Se uno attacca Marchionne e l’altro sembra invece colui il quale si attacca alle regole per arginare l’avversario.
Non è colpa nostra se in due anni la mossa mediatica più riuscita di Bersani è la foto col boccale di birra in un locale del centro di Roma. Ha tante ragioni, il segretario del Pd. Si è sobbarcato una scelta difficile, l’appoggio al governo Monti quando elezioni anticipate lo avrebbero condotto in carrozza a Palazzo Chigi. Ma in politica il passato non conta, la riconoscenza non esiste.
Lui, che uomo di apparato in senso stretto non è, sta invece scontando ogni giorno di più quest’immagine. Noi glielo vorremmo dire e anzi glielo diciamo, ma questo non significa essere contro di lui.
La campagna elettorale è campagna elettorale. Possibile che la sinistra non abbia ancora capito la rilevanza della comunicazione? A meno che non consideriamo Obama un berlusconiano.
Bersani si deve dare una smossa, deve cominciare a parlare un linguaggio chiaro, deve scrollarsi di dosso quell’immagine di vecchio, di segretario dell’ancien regime. Perché lui, e questo è il punto, è un innovatore.
Per Linkiesta è un successo che ci sia una competizione nel Pd, nel centrosinistra. Per Linkiesta tanti dei dirigenti del Pd possono andare a casa dopo un’esperienza ultraventennale. Per Linkiesta, ripetiamo, non è detto che Renzi sia più innovativo di Bersani. Per Linkiesta, però, al momento il segretario sembra l’ombra del dirigente moderno tanto elogiato sulla rete fino a cinque-sei anni fa.