A inquinare l’aria del golfo di Taranto non sarebbe solo la diossina dell’Ilva. A pochi chilometri dalla acciaieria più grande d’Europa, circa cinque minuti d’auto, ci sono anche le ciminiere fumanti della raffineria Eni. Accusata ora, sulla base di una querela presentata da un ex dipendente, di emettere sostanze nocive in grado di provocare il cancro. L’operaio, 66 anni, ha lavorato negli stabilimenti tarantini dell’Eni dal 1983 al 2003 con mansioni di operatore polivalente negli impianti petroliferi e come tecnico di laboratorio dell’azienda. E dopo vent’anni di lavoro, gli è stato diagnosticato un adenocarcinoma alla prostata. Con altre complicazioni, inclusa una infiammazione cronica dei linfociti. Secondo l’avvocato dell’ex operaio, Giuseppe Lecce, si potrebbe formulare l’ipotesi di «malattia professionale». Il legale, lo stesso che guida la class action dei cittadini di Taranto contro l’Ilva, dice a Linkiesta che esisterebbe «un nesso di causalità» tra le emissioni della raffineria e il tumore diagnosticato all’operaio. «Con questa querela», dice, «abbiamo lanciato un messaggio, perché viene da una persona che in quegli stabilimenti ha lavorato per vent’anni».
Quando il suo cliente si è rivolto ai medici, racconta Lecce, «gli è stato detto che quel tumore era legato all’esposizione continuata agli inquinanti sul posto di lavoro che aveva subito per molti anni». È noto, scrive l’ex operaio nella querela, «che la raffineria Agip S.p.A. con la propria attività contribuisce in modo massiccio alla crescita allarmante del tasso di inquinamento che si registra nella nostra città e di conseguenza alla diffusione esponenziale di tumori e di altre gravi patologie; pertanto, si può ritenere che le patologie diagnosticatemi siano conseguenza del ventennio di attività lavorativa svolta in un ambiente malsano e fortemente inquinato».
Le emissioni, si legge, sarebbero «conseguenza di un’attività non conforme alla normativa», in grado di arrecare «disturbo alle persone superando la normale tollerabilità con conseguente pericolo per la salute pubblica». È «l’esigenza di tutela dell’incolumità pubblica a prevalere anche se la predetta attività è esercitata con un’autorizzazione amministrativa». Sul punto, è scritto ancora, «si è espressa in più occasioni la Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che la conditta incriminata è posta in essere da chi omette di apprestaare impianti, installazioni o dispositivi tali contenere, entro i più stretti limiti che il progresso della tecnico consenta, le emissioni di fumi o gas o polveri o esalazioni che, oltre a costituire comunque pericolo per la salute pubblica, incidono in modo rilevante sull’inquinamento atmosferico. Da qui l’esposto-querela nei confronti dei legali rappresentanti dell’Agip S.p.A. Raffineria di Taranto per i reati di lesioni personali colpose di cui all’art. 590 c.p., di getto pericoloso di cose di cui all’art. 674 c.p. e per quanti altri reati si dovessero riscontrare nei fatti esposti e accertandi».
In base alla classifica delle 622 fabbriche più inquinanti d’Europa stilata dalla Agenzia europea per l’ambiente (Eea) nel 2011, la raffineria Eni di Taranto si trova al 544esimo posto. Gli stabilimenti petroliferi, si legge nei documenti della Eea, producono ogni anno 754 mila tonnellate di anidride carbonica, 495 di ossidi di azoto, 1.620 di ossidi di zolfo e 647 di composti organici volatili non metanici. Non sono invece resi noti i livelli di Pm10 e ammoniaca. Tutte sostanze che finiscono direttamente nell’aria del golfo di Taranto, insieme alle emissioni della vicina Ilva (al 52esimo posto della classifica Eea).
Il composto più pericoloso, come sostiene uno studio del comitato scientifico Wwf Taranto coordinato da Rossella Baldacconi, sarebbe l’idrogeno solforato prodotto dagli impianti desolforazione della raffineria (composto di cui parla anche la stessa “Dichiarazione ambientale” dell’Eni). Sarebbe questa sostanza a produrre quell’odore di uova marce percepibile da chiunque si trovi a passare dalla città pugliese. Secondo lo studio, tra le conseguenze dell’esposizione all’idrogeno solforato, ci sarebbero «problemi neurologici, affaticamento, debolezza, depressione, perdita ella memoria, mal di testa, problemi di apprendimento, problemi alla vista, alla circolazione del sangue, svenimenti». A questi si aggiungono «aborti spontanei» e «un aumento dei danni neurologici». In più, si legge, «la presenza di idrogeno solforato può portare all’instabilità genomica o a mutazioni tipiche dei polipi adenomatosi spesso associati al cancro al colon».
Nel 2011 nello stabilimento in riva al mar Jonio sono stati raffinati 2,5 milioni di tonnellate di greggio proveniente dai giacimenti della vicina Val d’Agri, in Basilicata, trasportato a Taranto attraverso l’oleodotto Monte Alpi. Ogni giorno, come si può leggere sul sito web di Eni, nella struttura transitano 120 mila barili. E il combustibile finale viene distribuito nelle pompe di benzina di tutto il Meridione. Negli stessi stabilimenti, lo scorso 11 ottobre due operai sono rimasti feriti in un incendio dopo la rottura di una tubazione che trasporta il greggio.