La diagnosi non lascia spazio a interpretazioni: il mercato europeo dell’auto è in affanno e di vetture nuove se ne vendono sempre meno. Secondo le ultime proiezioni, il 2012 chiuderà con 13,6 milioni di immatricolazioni contro i 16,8 del 2007 e le previsioni per il futuro parlano solo di un parziale recupero, che sarà lento, affannoso e nemmeno certo. Secondo uno studio di AlixPartners, nella migliore delle ipotesi nel 2016 le immatricolazioni saranno 15,4 milioni, cioè il 91% delle auto nuove piazzate dieci anni prima, e questo nonostante le campagne promozionali massacranti (per i margini di case e concessionari) e i massicci investimenti per rinnovare i modelli messi in campo per arginare una disaffezione dei consumatori verso l’auto che sembra prendere vigore invece di affievolirsi.
Colpa della congiuntura economica sfavorevole, certo, ma nella quale molti analisti cominciano a intravedere anche una rilassatezza generale, soprattutto delle nuove generazioni, nei confronti dell’uso e del consumo dell’oggetto automobile. Quel che è certo è che in mancanza di provvedimenti molto decisi, la prognosi per alcuni costruttori potrebbe essere infausta. La cura prevista, non più procrastinabile, sembra ora puntare verso l’unica direzione possibile: l’adeguamento della produzione a una domanda che non intende più assorbire le eccedenze.
Da un Paese all’altro, si susseguono gli annunci di chiusure o ridimensionamenti dei grandi “plants” europei. Dopo quello Opel di Anversa (8.300 operai a casa, con l’ultima Astra uscita dalle catene di montaggio il 26 dicembre 2010), quello Fiat di Termini Imerese chiuso l’anno scorso (si montavano le Lancia Ypsilon) e quello Saab di Trolhättan, il cui stop in Svezia è coinciso con il default e la triste scomparsa dal panorama automobilistico della casa scandinava già ex-General Motors, il vento della crisi soffia impetuoso investendo ancora il Belgio e in misura minore la Svezia, imperversa in Francia e approda infine anche in Inghilterra.
La situazione di casa nostra la conosciamo, e oggi 30 ottobre, vigilia di Halloween, sapremo se anche per l’Italia l’ad Fiat Sergio Marchionne ha confezionato un dolcetto-scherzetto. I conti diffusi stamattina dicono che il Gruppo Fiat ha chiuso il terzo trimestre con un utile netto più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo di un anno fa a quota 286 milioni di euro (112 mln nel terzo trimestre 2011). L’utile netto dei nove mesi è invece sceso da 1.386 a 1.023 milioni di euro. Tuttavia, esclusa Chrysler, il Lingotto registra una perdita di 800 milioni di euro rispetto all’utile di 1,2 miliardi dei primi nove mesi del 2011. Sul fronte dell’indebitamento, si passa dai 5,5 miliardi di euro di fine 2011 ai 6,7 miliardi, nonostante Chrysler sia riuscita a ridurre il debito di 1,8 miliardi di euro.
Ford, che quest’anno potrebbe perdere in Europa un miliardo di euro o forse di più e che nei primi nove mesi di quest’anno deve fronteggiare un calo delle vendite continentali di oltre il 12%, ha appena annunciato un piano di razionalizzazioni che dovrebbe generare risparmi per 400 milioni annui. Prevede, entro il 2014, la chiusura dell’impianto belga di Genk, da dove escono i modelli Mondeo, S-Max e Galaxy, la cui produzione verrebbe assegnata a quello spagnolo di Valencia, il quale perderebbe a sua volta la C-Max in favore di quello tedesco di Saarlouis. È opportuno sottolineare che tra i motivi della chiusura di Genk non c’è il fin troppo prevedibile calo della produzione dell’attuale Mondeo che sta per essere sostituita dal modello rinnovato, ma le previsioni di vendita dell’erede, che evidentemente vengono giudicate inferiori a quelle della versione ora in “run out”. Quindi, se ne deduce che anche con il rinnovo del modello, il management Ford non si attende un recupero del tasso di utilizzo dello stabilimento, attualmente intorno a un deludente 65-68%, fino a un valore che giustifichi il suo mantenimento in attività.
Morale: 4.300 operai fiamminghi perderanno il lavoro e non può sfuggire, nel piano Ford, il ricorso a misure in senso contrario alla delocalizzazione. In altre parole, si cerca di riportare la produzione a casa e di salvaguardare soprattutto gli stabilimenti nazionali, in questo caso quello tedesco di Saarlouis , visto che la ragione sociale europea del costruttore dall’ovale blu è pur sempre Ford AG. Come se non bastasse, da Colonia hanno annunciato anche la chiusura dell’impianto britannico di Southampton (400 operai) dove oggi viene assemblato il celebre veicolo commerciale Transit, la cui produzione verrebbe trasferita alla filiale turca Ford Otosan con stabilimento a Cokaeli, che già oggi lo assembla insieme al più piccolo Transit Connect. Infine, va messo in conto il ridimensionamento dello storico sito di Dagenham in attività dal 1931, che durante la guerra montava i caccia Spitfire della RAF e oggi produce solo motori: dalla prossima estate perderà il reparto stampaggio e circa un migliaio dei rimanenti 4mila operai. Nel 1953 erano oltre 40mila. Altri tempi.
Il gruppo Psa (Peugeot-Citroën) ha annunciato il 12 luglio scorso la chiusura nel 2014 dell’”usine”di Aulnay-sous-Bois, alle porte di Parigi, teatro in tempi lontani, e anche più recenti, di accese lotte sindacali e che oggi assembla la Citroën C3, la cui produzione verrebbe trasferita a Poissy-sur-Seine. I posti di lavoro in gioco sono 8mila, ma il governo francese si è subito pronunciato con decisione contro il progetto di chiusura, riguardo al quale la casa ha parlato, per la verità in modo piuttosto nebuloso, di un piano di riqualificazione e di ricollocazione delle maestranze che in teoria non dovrebbe lasciare a casa nessuno, anche se in tal caso non si capisce bene dove sarebbe il vero risparmio. Probabilmente la strategia di Psa è stata studiata per tentare di attutire l’impatto delle sue decisioni nei confronti di un’opinione pubbica, e soprattutto di un governo Hollande, le cui reazioni erano fin troppo prevedibili.
Infatti, il governo ha incaricato il super-consulente Emmanuel Sartorius di redigere un rapporto sulla salute del gruppo automobilistico e sulla reale necessità di portare avanti una ristrutturazione così drastica, nelle pieghe della quale si addensano nubi minacciose anche su un altro impianto, quello bretone di La Janais, nei pressi di Rennes, che oggi assembla le vetture d’alta gamma del gruppo, le Citroën C5 e Peugeot 508, con la poco fortunata ammiraglia Citroën C6 che uscirà comunque di scena il prossimo dicembre. Nello stabilimento, dove le linee di montaggio sono già state ridotte da tre a due a partire dal 2008, lavorano oggi circa 5.600 operai rispetto agli 8.600 del 2009 e agli oltre 14mila degli inizi degli anni 80. La qualità produttiva e il clima sindacale a La Janais sono giudicati soddisfacenti, ma il gruppo francese deve fronteggiare un crollo delle vendite nel segmento “alto di gamma” del 20% negli ultimi 10 anni e anche gli attuali volumi produttivi ridotti non vengono più ritenuti compatibili con la domanda.
Il Rapporto Sartorius ha fornito al ministro francese del Risanamento Produttivo, Arnaud Montebourg, gli elementi per criticare molti contenuti del piano di Psa, ma anche quelli utili a recapitare al quartier generale della casa un impietoso giudizio sulle strategie di lungo termine del suo management. Le accuse non citano uno dei più clamorosi “flop” nella storia recente del gruppo francese, quello della negletta e incompresa Peugeot 1007, tolta dal listino nel 2010 dopo il disastro di appena 122mila esemplari prodotti in cinque anni e venduti, soprattutto nell’ultimo periodo, quasi solo grazie a campagne promozionali devastanti per i margini. Però il documento non trascura il mancato raggiungimento della prevista produzione di 4 milioni di veicoli l’anno, a fronte della quale appaiono ingiustificati gli investimenti che hanno dilatato le capacità complessive degli stabilimenti, mentre viene sottolineata anche l’incapacità, nonostante anni di tentativi, di trovare un partner con il quale condividere progetti e piattaforme.
Il compagno ideale è stato recentemente identificato (febbraio 2012) in General Motors, che detiene oggi il 7% del capitale di Psa, ma la tardiva alleanza produrrà benefici economici in tempi non esattamente compatibili con le emergenze attuali, nei confronti delle quali neppure l’Opel di Gm è immune. Psa, infatti, che nel 2006 aveva già deciso di chiudere il sito britannico di Ryton, attualmente pare che bruci liquidità allo spaventoso ritmo di 300 milioni di euro al mese e il valore dell’azione, recentemente eliminata dall’indice Cac dei 40 maggiori titoli della borsa parigina, è precipitato ai minimi da 26 anni.
L’avvitarsi della crisi procede a velocità tale che le trattative governo-azienda in corso da luglio per il salvataggio di Aulnay sembrano ora riguardare più quello dell’intero gruppo che la salvaguardia degli 8mila posti di lavoro in pericolo nello stabilimento. Lo Stato ha annunciato un prestito di 7 miliardi di euro a Psa Finance, la traballante finanziaria “captive” di proprietà della casa automobilistica che si occupa di erogare prestiti ai clienti per l’acquisto dell’auto, ma l’attuale “patron” di Psa, Philippe Varin, s’è affrettato a dichiarare che le contropartite chieste dal governo non mettono in discussione la soppressione di Aulnay. In effetti, il piano viene giudicato “rivedibile ma necessario” anche dal Rapporto Sartorius, però il governo ha avuto la mano pesante con gli azionisti di riferimento della casa francese, cioè la famiglia Peugeot: in cambio del finanziamento (che i concorrenti europei, Volkswagen in testa, giudicheranno probabilmente inaccettabile qualificandolo come “aiuto di Stato” contrario alle regole della libera concorrenza) è previsto che nel consiglio d’amministrazione del gruppo entrino un rappresentante del governo, con potere di sorveglianza e veto sulle strategie del gruppo, e uno dei lavoratori. Il che significa che la dinastia dei Peugeot, finora saldamente al timone, perderà almeno una parte della sua libertà di manovra, sorvegliata dallo scomodo ma necessario alleato statale.
È da sottolineare che, anche nel caso di Psa, il super-consulente governativo non ha mancato di suggerire, con un patriottismo tutto transalpino, che se c’è uno stabilimento da chiudere sarebbe semmai quello spagnolo di Madrid, giudicato superato e logisticamente svantaggioso perché lontano dai fornitori di componenti. Globalizzazione e delocalizzazione, quindi, possono anche andar bene, ma solo fino a quando chi detiene il potere, a Parigi come a Berlino (e a Roma che cosa dicono?), non si accorge che gli interessi industriali talvolta fanno a pugni con quelli occupazionali del Paese, i cui senza lavoro pesano poi sulle casse pubbliche.
Dal Belgio, che non avendo una propria casa automobilistica in grado di alzare la voce appare oggi più che mai in balia delle decisioni di quelle che fanno funzionare gli stabilimenti ospitati sul suo territorio, arrivano altre notizie poco incoraggianti. Volvo Cars, oggi di proprietà del gruppo cinese Zhejiang Geely Holding, ha annunciato che nel suo stabilimento, ubicato sempre nei pressi della bersagliata Genk e da dove escono i modelli S60, XC60, C30, V40 e tra poco anche la V40 Cross Country, la cadenza produttiva passerà da 59 a 54 vetture l’ora. Ne faranno le spese 300 lavoratori precari ai quali il contratto non verrà rinnovato. La decisione si aggiunge a quella presa per il sito svedese di Torslanda, a pochi km da Göteborg, dove si fabbricano i modelli XC70, XC90, S80, V60 e V70. Nel “Torslandaverken”, a dispetto delle potenzialità aumentate in tempi non lontani fino a 230mila unità l’anno e del motto aziendale “più capacità con qualità sempre migliore”, le maestranze sono state poste in permesso forzato e gli impianti sono fermi da oggi con riavvio previsto il 1° novembre dopo che la cadenza produttiva è già passata, dall’inizio di questo mese, da 57 a 50 auto l’ora. Non è il primo stop temporaneo all’attività dello stabilimento e già nel 2008 era stata chiusa una delle tre linee di montaggio. Nel villaggio svedese dove sorge anche il museo Volvo, quindi, memori del recente dramma di Trolhättan targato Saab, tremano come le foglie degli abeti di fronte ai gelidi venti del Nord, poiché c’è la conferma che anche Volvo, in passato vicina più di ogni altro grande costruttore all’agognato traguardo di “una macchina, un acquirente”, per smaltire gli stock di vetture invendute o non ampliarli ha dovuto arrendersi alla violenza della crisi e adeguare la produzione alla domanda.
Gli impianti italiani di Fiat Group Automobiles lavorano da tempo a ritmi ridotti, alcuni (Piedimonte San Germano e Torino Mirafiori) con un tasso di sfruttamento talmente basso da risultare insostenibile dal punto di vista industriale senza il ricorso a dosi massicce di cassa integrazione. L’ad Fiat, Sergio Marchionne, sta fronteggiando un crollo delle vendite europee, e in particolare italiane, che non ha molti precedenti, un problema certamente aggravato da una strategia di gruppo che prevede di non sprecare le preziose cartucce rappresentate dai nuovi modelli in un mercato che per ora viene ritenuto non in grado di apprezzarli. Risultato: meno novità Fiat ci sono, meno il mercato ne assorbe. Nel frattempo, Marchionne cerca disperatamente accordi di produzione con altri costruttori (per esempio, Mazda) per tentare di migliorare il tasso di utilizzo degli impianti, ma con margini di manovra esigui e certo non agevolati dalla mancanza assoluta di una politica di agevolazioni fiscali in grado di attrarre investimenti esteri sul territorio italiano e anche dai costi poco concorrenziali dell’energia. Il futuro degli assetti produttivi italiani di Fiat dovrebbe essere rivelato stasera dopo la conference call con gli analisti, ma sono in molti a ritenere che le novità non saranno incoraggianti.
Paradossalmente, le notizie più positive (o forse meno negative) provengono dal Regno Unito, un Paese che in passato ha visto soccombere e sparire uno dopo l’altra le aziende automobilistiche nazionali, soppiantate da gruppi esteri che (non sempre con successo, come insegna lo sciagurato epilogo della vicenda Bmw-Rover) hanno rilevato molti degli stabilimenti esistenti. Per inciso, oltre alle condizioni complessive dell’industria dell’auto in terra britannica, oggi non infelici, il mercato automobilistico locale sembra essere, tra quelli europei di grandi dimensioni, quello meglio attrezzato per resistere alla crisi, come dimostrano le immatricolazioni dei primi nove mesi del 2012 in crescita del 4,3% rispetto allo stesso periodo del 2011.
A bilanciare i tagli previsti da Ford, infatti, ci sono gli investimenti di Honda UK (267 milioni di sterline per lo stabilimento di Swindon, rinnovamenti dei modelli e nuovi motori a basso impatto ambientale) e quelli, ancora più massicci, di Jaguar Land Rover, gruppo ceduto da Ford per circa due miliardi di dollari all’indiana Tata Motors, che ha infuso nuova linfa vitale e fiducia a due marchi che con la gestione americana apparivano in serie difficoltà. Nello stabilimento Land Rover di Halewood la forza lavoro è salita di 1.000 unità, a 4.500, e gli impianti lavorano su tre turni, 24 ore su 24, per soddisfare la domanda del fortunato modello Evoque.
Anche il completo e recentissimo rinnovamento della Range Rover, l’ammiraglia delle fuoristrada che sfrutta la nuova e gradita immagine di marca inaugurata dalla più piccola Evoque, lascia ben sperare: la casa vi ha investito 463 milioni di sterline e ha creato migliaia di nuovi posti di lavoro nello stabilimento di Solihull, nei pressi di Birmingham, mentre ulteriori speranze arrivano dall’imminente lancio della sportiva Jaguar F-Type. Insomma, i corsi e ricorsi della storia hanno voluto che le poche glorie rimaste all’automobilismo britannico stiano oggi prosperando proprio grazie ai capitali Tata e al fatto che sugli stabilimenti d’oltremanica sventoli oggi la bandiera indiana, cioè quella di un Paese che in passato ha sofferto, e a lungo, il colonialismo di Sua Maestà.
Dall’analisi della situazione del mercato dell’auto europeo e della sua industria automobilistica prorompono con forza alcune evidenze. La prima è che, nelle condizioni attuali, nessun costruttore può più permettersi di “sbagliare” un modello. La sopravvivenza, come insegna proprio il caso Land Rover Evoque, è ormai sempre più legata al fatto di avere nella gamma almeno un’auto che “tira” e la catastrofe è il rischio che corre chi fa “flop” anche con una sola novità che il mercato mostra di non apprezzare.
La seconda evidenza è che l’industria europea ha, nel suo complesso, colpe gravissime riguardo ai problemi che oggi è chiamata a risolvere. Della sua sovracapacità produttiva, oggi pari a circa il 26% di quanto può uscire dagli stabilimenti (ossia, un fiume di 7 milioni di veicoli sui 27 che oggi le fabbriche del vecchio continente possono sfornare), si parla da anni e le dismissioni o il ridimensionamento degli stabilimenti sono ora il doloroso risultato di un atteggiamento dilatorio e di chiusura mentale da parte delle case stesse, ma anche dei rispettivi governi, nei confronti di soluzioni che, diluite nel tempo e accompagnate da interventi governativi saggi e mirati, avrebbero potuto rendere assai meno traumatici i contraccolpi sul sistema produttivo e lavorativo che oggi si temono.
Come già riportato, dal 2007 a oggi soltanto tre stabilimenti europei sono stati chiusi, mentre ai restanti se ne sono aggiunti otto nuovi, dei quali sette in Russia e Ucraina e uno in Serbia, quello Fiat di Kragujevac. Senza interventi correttivi, è previsto che il tasso di utilizzo degli impianti in Europa si manterrà nel 2014 a un ancora insoddisfacente 75%, ma il dato potrebbe peggiorare in presenza di un mercato ancora meno ricettivo di oggi. Nello stesso periodo 2007-2012, negli Stati Uniti, dove pure l’eccesso di produzione nel 2007 era di soli 2,3 milioni di veicoli (cioè, di poco superiore al 14% della capacità produttiva totale) sono stati chiusi sei stabilimenti General Motors (più uno in Messico), tre Chrysler e sette Ford, cioè 16 impianti oltre a quello messicano, mentre ne sono stati aperti solo cinque. Un 17° impianto, quello GM di Shreveport, cesserà la produzione l’anno prossimo, mentre entro il 2014 potrebbe forse partire solo una nuova fabbrica (di Audi), più altre due di Honda e Nissan, ma in Messico.
Con un bilancio di 17 stabilimenti chiusi e ben pochi nuovi, l’eccesso produttivo previsto negli Usa nel 2014 sarà ridotto a 2,3 milioni di veicoli, cioè il 12,7% della capacità teorica totale, con un tasso di utilizzo degli impianti dell’88%, assai migliore dell’insopportabile 63% registrato nell’”anno nero” 2009 e anche dell’86% del 2007, agli albori della crisi. Ma soprattuto, tale tasso sarà superiore di ben 13 punti percentuali rispetto a quello previsto nel 2014 in Europa in assenza di misure correttive.
È evidente che la ristruttrazione dell’industria automobilistica statunitense voluta dal presidente Obama, più drastica, ma soprattuto assai più tempestiva rispetto a quanto si è saputo fare in Europa, sta funzionando e ha reso le case d’oltreoceano (ma anche quelle nipponiche e coreane che producono laggiù) più forti e pronte ad agganciare una ripresa delle nuove immatricolazioni che mostra segnali di consolidamento. Eppure, anche l’amministrazione Obama era intervenuta in una situazione iniziale molto simile a quella che si riscontra oggi in Europa, con le “three big” di Detroit cullatesi per anni nell’illusione, completamente fuori luogo, di un mercato che avrebbe continuato a svilupparsi in eterno.
In molti mercati del vecchio continente la droga che ha prolungato l’intossicazione ha preso il nome di “incentivi alla rottamazione” (o altri nomi simili), un regalo che ha portato le case a rimandare la cura da cavallo che oggi sembra inevitabile e urgente. Tutto ciò era stato evidenziato a suo tempo, ma evidentemente non metabolizzato a sufficienza nelle stanze dei bottoni, dove si è dormito sugli allori. Vedremo se il sonno continuerà anche ora che qualche cavallo rischia seriamente di azzopparsi senza rimedio.