*da Corriere della Sera, 14-10-2012
L’assessore della Regione Lombardia arrestato con l’accusa di aver comprato 4.000 voti dalla ’ndrangheta non sarebbe potuto essere neppure indagato per voto di scambio, al pari di molti politici già sorpresi in relazioni pericolose con le cosche, se (come documentato da una intercettazione) non avesse pagato in denaro.
Per come è scritto l’articolo 416 ter, infatti, il voto di scambio è punibile solo se il politico lo paga in denaro, non se lo compra con assunzioni, appalti, favori. Incongruenza tante volte additata, sempre invano: ora la realtà si è incaricata di dimostrarne l’attualità, ma di questa modifica non c’è traccia nella legge anticorruzione. Che nemmeno reinterviene sul falso in bilancio: eppure, per restare alle ultime inchieste in Lombardia, le sovrafatturazioni alla base del quasi crac da un miliardo di euro del San Raffaele dovrebbero suggerire quanto improvvida sia stata nel 2002 la riforma che svuotò il falso in bilancio pur lasciando l’involucro del reato, e quanto incomprensibile sia ritenere un tabù il correggere subito quell’errore. Così come non si comprende il senso del rinvio ad altre occasioni (ma poi quali, seriamente?) di una norma che nel resto d’Europa punisce l’autoriciclaggio, cioè l’attività di chi occulta i proventi dei propri crimini, condotta oggi non sanzionabile a differenza di quella di chi ricicla i frutti di reati altrui.
Il gelatinoso rapporto tra il governatore lombardo e gli amici che gli pagavano le vacanze, mentre i loro ospedali-clienti beneficiavano di delibere regionali favorite dalla loro «consulenza», ribadisce poi quanto sia superato lo schema classico della tangente tra corruttore e corrotto: la regola è ormai la triangolazione in cui Tizio procura a Sempronio una qualche utilità (denaro, case, lavori, incarichi, leggi, sentenze, conoscenze) a fronte della quale Caio si rende disponibile a favorire Tizio, magari neppure direttamente ma influendo su altri.