Da circa un mese, a Reggio Calabria il Tribunale dei Minori ha iniziato ad allontanare i figli minorenni dalla famiglie di ’ndrangheta. Una misura dura per contrastare la malavita organizzata, ma che sta facendo discutere.
PADRE: «Mi devi comprendere bene, bene, bene, bene quello che dico. Allora, esiste un concetto di legge… esiste la legge, c’è i carabinieri, c’è il giudice… esiste un concetto di famiglia… mi segui, mi segui bene?… Allora, la famiglia non si rivolge mai alla legge… ma fa giustizia per proprio conto […] Allora queste persone qua vengono chiamate della ’ndrangheta, ossia… esempio… se uno ti fa un torto, io non vado dalla polizia a dire… hanno fatto un torto a mio figlio, prendo quello e lo ammazzo perché ti ha fatto un torto a te, hai capito come funziona?».
FIGLIO: «Ah, ecco cos’è la mafia».
[…]
PADRE: «Oh, vuol dire questo! Poi ci sono la mafia quella dei mafiosi che possono fare il traffico di droga e possono fare le cose brutte e dei mafiosi che sono uomini d’onore. Che cosa vuol dire uomini d’onore? Che ognuno invece di rivolgersi al sindaco, al maresciallo o a… tutti quanti si rivolgono a lui di sapere… c’è mio figlio che non vuole andare a scuola, c’è mio figlio che gli servono i soldi, c’è mio figlio che gli devo trovare un impiego, compratevi qua, compratevi là, quindi fa tutto quanto la legge lui, senza avere nessun incarico».
FIGLIO: «Quindi ci sono tanti tipi di mafiosi».
PADRE: «È logico».
FIGLIO: «E i mafiosi che dice la maestra sono quelli che non rispettano la legge!».
PADRE: «Ma nessuno, nessuno rispetta la legge, i mafiosi sono contro la legge […] perché hanno una forza proprio per farsi giustizia da soli».
FIGLIO: «E quindi non è un caso che solo in Calabra, in Sicilia…».
PADRE: «No, c’è la mafia russa, c’è la mafia in Grecia, ovunque vai c’è mafia».
Questa riportata è una intercettazione ambientale carpita nel 2001 nel corso di una indagine sulle cosche della ’ndrangheta a Fondi. Il padre, boss legato alla ’ndrangheta, a colloquio col figlio in auto nel tragitto casa-scuola spiega chi sono e cosa fanno i “mafiosi” perché a scuola al piccolo ne hanno parlato. Il bambino crede che mafiosi siano solo quelli «che non rispettano la legge», come gli hanno spiegato a scuola. Uno stato di cose ridotto all’osso che al padre boss non va giù.
È anche basandosi su episodi come questo e per allontanare i minori dai contesti familiari mafiosi che si è inaugurato un “nuovo corso” al Tribunale dei minori di Reggio Calabria. La struttura sta infatti varando una serie di provvedimenti, attualmente definiti «d’urgenza», ma non è escluso che possano diventare prassi, per togliere i figli minorenni alle famiglie della ’ndrangheta per provare a restituirli a un mondo che non sia quello criminale.
Un nuovo corso, inaugurato dal giudice Roberto di Bella del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, che presenta innovazioni che faranno discutere. I minori vengono infatti trasferiti senza contraddittorio delle famiglie-controparti, almeno in un primo momento, proprio quello di maggiore “emergenza”. Le controparti verranno infatti sentite in un secondo momento, dato che l’allontanamento immediato si rende necessario in presenza di rischi ed emergenze per l’integrità psicofisica del minore.
Una decisione che risulta essere diversa dalla semplice decadenza della patria potestà sui figli minori. Un esempio per tutti sta proprio in uno dei primi provvedimenti presi dai giudici Di Bella e Landro: il rampollo 16enne di uno dei più potenti clan di Locri è stato sorpreso di fianco a un’auto danneggiata della Polizia Ferroviaria con altri amici. Assolto per carenza di prove nel processo per danneggiamento e furto, i giudici hanno però ritenuto di accogliere la richiesta del pm a emettere «un provvedimento limitativo della potestà genitoriale».
Motivo? Il contesto famigliare evidenziato nell’istruttoria del procedimento: il padre del ragazzo ucciso in agguato mafioso, fratelli condannati per associazione di stampo mafioso e omicidi, ritmi di vita spesso sregolati che vedono il giovane spesso in compagnia di pregiudicati, il ritiro dalla scuola, e la madre, scrivono i giudici «non appare idonea a contenerne la pericolosità come comprovato dalla sorte degli altri figli». Allo stesso modo nemmeno altri componenti della famiglia del giovane visto il ruolo «di spicco» che la stessa riviste «nella criminalità organizzata sul territorio di residenza».
Per i giudici del Tribunale dei minori, sottrarre i figli minorenni «è l’unica soluzione per sottrarre», in questo caso il 16enne, «a un destino ineluttabile», e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita «alternativi a quello deteriore di provenienza».
Un provvedimento simile, e fino ad ora l’unico a essere passato al vaglio della Corte d’Appello, è stato preso anche nei confronti dei tre bambini di Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia e suicida, i cui tre figli, scrivono i giudici, sono stati «usati come strumento di ricatto». Per questo è stato necessario l’allontanamento dei bambini «dal contesto familiare permeato da dinamiche malavitose, e comunque da valori “tribali” improntati a una subcultura con un travisato senso dell’ “onore” e del “rispetto”».
La famiglia ha fatto ricorso, ma il reclamo è stato respinto, così i tre bambini saranno affidati ai servizi sociali presso una comunità al di fuori della Calabria. Decisioni destinate ad aprire un dibattito nei prossimi mesi sull’opportunità di queste misure “emergenziali”, che tuttavia, come ricorda Laura Garavini, deputata PD e componente della Commissione Parlamentare Antimafia che sul caso Cacciola ha presentato una interrogazione in Parlamento,«è fondatissima nel caso dei bambini di Maria Concetta Cacciola».
La stessa Garavini sollecitava infatti, nell’interrogazione datata settembre 2011, il Ministero dell’Interno a rivedere i regolamenti sull’affido dei figli delle collaboratrici in località protette. In particolare nei casi in cui, come in quello della Cacciola, la madre in questione non abbia compiuto crimine alcuno, e quindi la sua collaborazione con la giustizia debba configurarsi con lo status di “testimone” e non quello di “collaboratore”. Proprio il mancato affido dei figli a Maria Concetta Cacciola, così come nel caso di Lea Garofalo, sciolta nell’acido dal compagno nell’hinterland milanese, avrebbe infatti determinato la possibilità del ricatto da parte della famiglia di origine legata alla ’ndrangheta che l’avrebbe spinta al suicidio.