Alla vigilia delle elezioni locali che si tengono oggi nella federazione della Bosnia Herzegovina, a Srebrenica è emerso il problema della registrazione dei potenziali elettori. Può spiegare?
La questione riguarda chi potrà votare. Nel 2008, a causa del genocidio commesso a Srebrenica nel 1995, per legge, tutti i bosgnacchi (cioè i bosniaci musulmani) nati in questo territorio, anche quelli sparsi per il mondo, indifferentemente da dove si trovassero, avevano potuto votare. Quest’anno questo non sarà possibile: potrà votare solo chi è registrato qui all’anagrafe. Quindi, chi nel frattempo ha preso la residenza altrove in Bosnia o all’estero e vuole votare deve registrarsi nuovamente. Purtroppo l’abbiamo capito solo a primavera e quindi la campagna per la registrazione è cominciata a maggio. Subito si è messa in moto un’organizzazione spontanea, ma era tardi.
È ancora possibile registrarsi?
No, le registrazioni si sono concluse il 23 agosto. Comunque, grazie all’attività che abbiamo messo in campo siamo riusciti a raccogliere complessivamente circa 4.500 elettori, di cui 2.400 nuovi. Durante questa campagna siamo riusciti a confermare anche una serie di elettori che vivono all’estero e che erano in possesso solo di carte d’identità temporanee.
I serbi hanno fatto un’analoga campagna…
Sì, anche loro hanno fatto questa campagna richiamando gente dalla Serbia e altrove, però tra loro non c’è molta gente che, in base alla legge, possa essere registrata per votare per il sindaco di Srebrenica. Loro comunque questo lavoro l’hanno fatto prima di noi. Infatti oggi a Srebrenica risiedono circa 3.500 serbi, ma nel registro elettorale ce ne sono circa 7.000. Questa è stata la nostra paura: che loro potessero, con questi voti fittizi, vincere le elezioni.
Oggi quante persone vivono a Srebrenica?
Prima della guerra a Srebrenica c’erano 36.666 abitanti, di cui l’80% bosgnacchi, quindi circa 28.000 abitanti. Il resto erano serbi. Oggi a Srebrenica vivono all’incirca 7.000 persone: 50% bosniacchi e 50% serbi. Però questi sono gli abitanti de facto. De iure, formalmente, nei registri, risultano 14.090 persone. Che hanno la residenza, ma non necessariamente vivono qui. In questo numero abbiamo all’incirca 8.000 serbi e il resto sono bosniaci.
Quindi più della metà è serba?
Sì.
Qual è la situazione economica a Srebrenica?
Il nostro comune si estende su 527.000 mq. Siamo ricchi di risorse naturali, anche minerarie, che però non governiamo, a differenza di prima della guerra. Le nostre risorse sono sotto la giurisdizione di Banja Luka (Republika Srpska), così la maggior parte dei nostri cittadini, in particolare i bosgnacchi, che perlopiù sono contadini, svolgono attività private, coltivando la terra, allevando il bestiame.
A Srebrenica abbiamo alcune ditte nate dopo la guerra, come Cimos, una ditta slovena che produce pezzi di ricambio per automobili, dove lavorano un centinaio di persone; abbiamo Bos Agro Food, che si occupa di conservazione e lavorazione di frutta e verdura. Stagionalmente ci lavorano da 50 a 100 persone. Sto parlando delle ditte in cui possono lavorare i bosgnacchi. Tutte le altre ditte sono serbe e quindi non ne so molto. È facile capire che in un siffatto contesto la possibilità di trovare lavoro, per i bosgnacchi che tornano, è molto limitata. Rispetto a com’era Srebrenica prima della guerra, come attività produttive siamo a meno dell’1%. In passato avevamo tre zone industriali che davano lavoro a circa a 8000 persone.
Qualche tempo fa sembrava che le terme, vero polo d’attrazione turistica per l’intera ex Yugoslavia, potessero innescare una dinamica positiva…
Purtroppo neanche l’acqua delle terme è sotto il controllo del Comune; è Banja Luka che dà le concessioni. Noi è già il terzo anno che abbiamo problemi con il governo della Republika Srpska. C’è un investitore che aveva intenzione di ricostruire e mettere in funzione le terme, il Comune ha già rilasciato i permessi edilizi, ma resta tutto bloccato dal governo di Banja Luka.
Qui si tratta più che altro di interessi politici. Evidentemente nella Republika Srpska non va giù che a Srebrenica al governo ci siano dei bosgnacchi. Di conseguenza cercano qualsiasi appiglio perché questa è una miniera d’oro che sicuramente potrebbe portare molti profitti e loro questo non lo possono permettere.
Ma anche i serbi di Srebrenica sarebbero stati contenti delle terme…
Ma certo, tutti i cittadini sarebbero stati contenti! Anche qui: ci sono cittadini serbi che lo possono dire pubblicamente e altri che non lo possono dire pubblicamente. Purtroppo alla base delle esternazioni politiche dei bosniaci prevale quello che chiamo un approccio “nazional primitivo” più che economico. D’altra parte, questo è il modo più facile per ottenere il consenso degli elettori, sicuramente è più semplice così che parlando della piattaforma economica.
Nella gente continua a essere alimentata la paura che un gruppo etnico distrugga l’altro se prende il potere.
Ma nella vita quotidiana, quali sono i rapporti tra serbi e bosgnacchi?
Considerando quello che è successo in questi luoghi, non abbiamo gravi problemi, non assistiamo a vendette fisiche o a rese dei conti. Anche perché sono pochi quelli che sono direttamente colpevoli del genocidio e che vivono a Srebrenica. C’è qualcuno che risulta sulle liste dei sospettati, verrà anche il suo momento. Ma quelli che si sono sporcati le mani non vivono più qui.
Durante la guerra la sua famiglia era qui?
Nel 1995 eravamo tutti qui. Io avevo 16 anni. Sono sopravvissuto perché non mi sono arreso, ho attraversato il bosco a piedi e sono arrivato nella zona libera di Tuzla. Mio papà e mio fratello sono stati catturati nel 1995 e portati in campo di concentramento in Serbia. In seguito sono andati in America, e la mamma e io li abbiamo raggiunti. Sono tornato qui nel 2005. All’epoca c’erano molti più serbi. Erano stati attratti qui con la propaganda sull’ultima “terra promessa” e quindi erano arrivati da varie parti della Bosnia Erzegovina.
Di lì a qualche tempo però anche loro hanno capito che le abitazioni private dovevano essere restituite ai legittimi proprietari e da quel momento i serbi arrivati dopo la guerra hanno cominciato a rientrare nei loro luoghi di provenienza o ad andare altrove. Contemporaneamente i bosgnacchi hanno cominciato a tornare.
Purtroppo, nei confronti di chi torna, i comuni hanno grosse responsabilità, ma poco potere.
Durante la guerra qui sono state distrutte 6300 case. Parliamo di grandi investimenti, di cui dovrebbero occuparsi le istituzioni nazionali o i donatori internazionali. Soprattutto perché la ricostruzione di queste case è condizione primaria per il rientro.
Qui il ritmo di ricostruzione è di dieci case all’anno. Potete fare i conti da soli su quanto ci vorrà per ricostruirle tutte. Bisognerebbe tenere conto di questo quando si fanno certi discorsi. Ma soprattutto bisognerebbe che tutti riconoscessero che il problema del rientro dei bosgnacchi non è soltanto locale, perché l’esito del genocidio credo riguardi tutta la comunità internazionale.
Io resto convinto che la maggior parte delle persone, anche quelle che hanno trovato un mestiere altrove, se gli garantissimo la ricostruzione della casa e un lavoro, ritornerebbero.
Sfortunatamente, il lavoro è proprio quello che oggi non possiamo garantire, sicuramente non nella misura in cui ce ne sarebbe bisogno. Per esempio c’è la miniera di Sasa a Srebrenica, che dà lavoro a 400 persone di cui 63 di Srebrenica e le altre di altri luoghi. Noi però su queste cose non possiamo fare niente, non possiamo imporre che venga assunta più gente di Srebrenica.
Secondo lei è possibile risolvere questa situazione se Srebrenica resta formalmente un comune della Republika Srpska?
Beh, noi una soluzione, un’idea ce l’avremmo. Già in passato abbiamo tentato di promuovere il progetto di un distretto autonomo indipendente dentro la Bosnia-Erzegovina, di uno statuto speciale, ma non ci siamo riusciti.
Come il distretto di Brčko?
Esattamente. Se potessimo diventare come Brčko posso promettere che in cinque anni Srebrenica rifiorirebbe.
I figli dei bosniaci musulmani che ritornano, dove vanno a scuola?
La maggior parte frequenta le scuole locali che adottano i programmi scolastici serbi.
Il problema è che qui è tutto serbo: i boschi sono serbi, le acque sono serbe, l’elettricità è serba, le strade sono serbe, le poste sono serbe, le scuole sono serbe, i medici… è tutto dei serbi!
Evidentemente a qualcuno va bene così.
Ma questo è il principale impedimento a che la gente torni. Cioè qui il 95% degli insegnanti è serbo, solo il 5% è bosgnacco e comunque il programma è quello serbo.
La municipalità com’è organizzata?
Qui siamo riusciti a bilanciare: siamo metà e metà. Nel 2005 anche nel Comune c’erano il 95% di serbi e il 5% di bosgnacchi.
Ma, nonostante tutto, la gente continua a tornare…
Quando sono rientrato, nel 2005, nella mia via c’erano tre famiglie, ora è pieno di bambini.
Le cose si muovono, ma per vedere dei risultati, bisognerebbe poter lavorare in modo sistematico. Io non ho dubbi: se potessimo riappropriarci dei boschi, delle miniere e delle terme, nell’arco di cinque anni diventeremmo uno dei comuni più sviluppati, e questo lo sanno tutti.
Attualmente il 95% di queste risorse è fuori gioco. E qualcuno ci sta mantenendo in questa condizione di proposito.
C’è qualche speranza per le terme?
Con questi meccanismi, sinceramente non vedo alcuna possibilità. Quell’acqua continuerà a finire nelle fognature, così com’è successo negli ultimi 17 anni. Questa è la realtà di questo Paese. Qualsiasi altro Paese europeo avrebbe saputo sfruttare questo luogo, ne avrebbe fatto una fonte di denaro e invece noi…
Lei viveva negli Stati Uniti. Come ha deciso di tornare qui?
Mentre ero studente di Legge seguivo le attività dell’associazione delle madri di Srebrenica e mi ero messo in contatto con alcune di loro. Avevo in programma di iscrivermi a un corso post-laurea. Sono venuto a trascorrere un po’ di tempo in Bosnia, circa un anno, per vedere come stavano le cose. L’idea era che poi sarei tornato in America e avrei concluso gli studi, ma dal momento in cui sono arrivato in Bosnia, mi sono inserito nel sistema delle Ong. Ho anche iniziato a impegnarmi seriamente nella campagna per uno statuto speciale di Srebrenica… e alla fine sono rimasto qui. In fondo penso che questa esperienza mi sia servita più di qualsiasi studio fatto negli Usa.
E la sua famiglia?
Non è stata una decisione condivisa. I miei genitori non erano d’accordo, però alla fine l’ho avuta vinta e sono tornati anche loro.
Oggi sono sposato e ho una bambina di tre anni. Vivo nella casa di famiglia. Lì ci sono anche i miei genitori.
Devo dire che sono il primo sindaco che vive qui. Chi mi ha preceduto forse interpretava questo incarico più come un lavoro, quindi lavoravano a Srebrenica, ma non vivevano qui con le loro famiglie. Per me è fondamentale essere qui, anche per capire cosa serve davvero alla città. Se fossi eletto sindaco, vorrei occuparmi delle questioni locali, dei problemi reali della cittadinanza, che per me sono in primo luogo la ricostruzione e le infrastrutture. Non mi interessa la cosiddetta “alta politica”. Si è perso troppo tempo nelle lotte per definire a chi appartiene Srebrenica. La maggior parte del denaro affluito qui è stato speso in workshop o seminari anziché in qualcosa di concreto che ci avrebbe portato qualche beneficio anche economico.
Quindi è scettico sull’utilità di iniziative sulla riconciliazione, sul dialogo…
C’è bisogno di queste cose, non dico che non si debbano fare e però…
Io dico: date il lavoro alle persone e si riconcilieranno da sole. Abbiamo una storia millenaria di convivenza, di persone che vivono assieme e felicemente. Non c’è bisogno che qualcuno ci venga a raccontare delle storie che forse sono più inerenti ad altri Paesi, dove le divisioni sono più antiche e profonde. Insomma, quello che voglio dire è che non si può imporre la riconciliazione. Se volete che le persone si riconcilino, aprite delle fabbriche, mettete le persone a lavorare assieme e vedrete che si riconcilieranno da sole.
Se invece volete mantenere l’agonia di questa separazione lasciate le persone nella povertà e raccontategli queste storie vuote, vane. Noi siamo strapieni di parole vuote.
Anche se incombe questo passato così pesante, lei pensa sia più giusto guardare al futuro, andare avanti…
Non so. Il fatto è che i bosgnacchi vorrebbero anche parlare, ma i serbi no. È un po’ come la storia del ladro che ruba un milione di marchi e cerca in tutti i modi di tenersi i soldi, pur essendo così costretto a rimanere un ricercato. A differenza di quello che magari accetta di arrendersi in cambio della metà. I serbi sono in questa posizione: piuttosto di restituire i soldi, anche una parte, preferiscono restare in fuga per sempre. Vorrei che mi capiste: tutto quello che i serbi hanno ottenuto qui, l’hanno conquistato con le armi, facendo la pulizia etnica e infine con il genocidio. Ma tutto questo lo vogliono mantenere. Questo ai bosgnacchi non può andare bene, perché hanno subito un’ingiustizia. Noi non possiamo dimenticare e nessuno ce lo deve chiedere. Però possiamo tollerare e stare assieme alle persone che non hanno preso parte a tutto questo. Siamo disposti a ricostruire questa città con coloro che non si sono sporcati le mani.
Il genocidio è un argomento di cui la gente parla?
I bosgnacchi ne parlano pubblicamente, i serbi cercano di evitare. Noi bosgnacchi abbiamo bisogno di una forma di espressione pubblica, anche per capire a che punto siamo, in quale direzione stiamo andando, in che modo possiamo continuare insieme. Questi erano luoghi di cultura patriarcale, dove l’uomo era a capo della famiglia; le donne che sono rimaste dopo la morte dei loro mariti e dei loro figli simbolicamente hanno custodito un pezzo di storia di Srebrenica che gli altri volevano cancellare. Alcuni probabilmente si aspettavano che il tempo curasse tutte le ferite e così anche la storia dolorosa di Srebrenica. Abbiamo perso una generazione, si era creato un vuoto, adesso però stanno arrivando le nuove generazioni, i giovani che hanno studiato, e penso che ce la possiamo fare.
E se alle elezioni vincesse il candidato serbo?
Sinceramente non voglio nemmeno immaginare un’ipotesi del genere. Non posso.