Tutto il festival di Internazionale a Ferrara minuto per minuto

Tutto il festival di Internazionale a Ferrara minuto per minuto

Come il web, il festival di giornalismo Internazionale a Ferrara, che si è tenuto dal 5 al 7 ottobre nella città estense, è caotico, disordinato, colorato, pieno di cose da fare, vedere, ascoltare, grossi nomi che si confrontano con gente comune, colli di bottiglia dove gli eventi sono più seguiti, rappresentati da interminabili code per seguire conferenze, documentari, dibattiti, tavole rotonde. Programma alla mano, si può vagare da un sito all’altro, seguire un genere di evento, o magari restare passivi a godersi la cornice, lo spettacolo di una bellissima città in fermento, come davanti a Youtube. Magari può anche essere l’occasione per socializzare, ho visto personalmente nascere almeno un paio di nuovi amori, altro che Facebook.

E sul web, più o meno direttamente, gli eventi sono stati davvero molti, per il duplice ruolo che in un contesto del genere riveste: web come futuro del giornalismo, web come fenomeno sociale, culturale, economico e criminale analizzato dal giornalismo. 

1) IL GIORNALISMO VISTO DAL WEB

Me l’ha detto l’uccellino. Twitter è il mezzo che oggi è in grado di catalizzare maggiormente le attenzioni mediatiche per la propria versatilità, immediatezza e facilità d’uso, che consente di essere quasi un’estensione di occhi, cervello e mani dei cronisti. L’uccellino celeste è stato al centro di un dibattito moderato da Luca Sofri, che ha visto partecipare Sultan Al Qassemi, celebre nel mondo per aver documentato con Twitter le rivolte arabe del 2011, Marina Petrillo, che con la sua trasmissione radiofonica Alaska esplora il mondo attraverso il web, con Twitter tra le fonti principali, David Randall, senior editor dell’Independent on Sunday, e Lee Marshall, giornalista inglese trasferitosi in Italia nel 1984, esperto di viaggi e cinema. Sofri si sbilancia, forse per accendere il dibattito: individua Twitter come il mezzo in grado di soppiantare le agenzie di stampa, trovando la forte opposizione di Randall (“Pura follia!”), che pone come elemento discriminante tra le due fonti di informazioni la fiducia e la selezione delle notizie. Anche se su posizioni molto distanti da quelle di Randall, Al Qassemi e Petrillo convengono che la selezione delle notizie su Twitter deve essere fatta con scrupolo per dare loro una buona credibilità.

Come capire cosa è vero e cosa è un fake? «In base al rispetto e alla credibilità delle fonti, dell’autorevolezza conquistata sul campo, di riscontri incrociati, da non confondere con i retweet, che spesso amplificano rumors del tutto privi di fondamento», dice Al Qassemi, che aggiunge però come sia importante seguire non solo i canali ufficiali e i giornalisti di grido, ma anche comuni cittadini impegnati civilmente e ong. Evidenzia inoltre come Twitter sia un mezzo giovane usato da generazioni “multitasking”, abituate ad avere una visione d’insieme da una serie di piccoli frammenti.

La Petrillo conferma che senza un lavoro di attenta selezione delle fonti attuato dalla sua redazione Alaska non avrebbe alcuna credibilità. Randall ha continuato a incalzare gli altri partecipanti con domande “scomode”: come si può seguire un evento se si sta twittando? E come la mettiamo col fatto che chi fa informazione su Twitter lo deve fare a titolo gratuito? Il primo interrogativo ha trovato d’accordo Al Qassemi, che però ha sottolineato come sia in alcuni contesti l’unico modo di fare informazione in tempo reale e dunque il “male minore”, mentre il secondo quesito ha visto l’obiezione di Sofri: bisogna accettare l’idea di un’informazione sempre più liquida e trasversale, dove non necessariamente alle spalle di chi fa informazione c’è un sito o un giornale, ma Twitter diventa il mezzo diretto e primario.

Marshall nel dibattito ha espresso le posizioni più moderate: la rivoluzione digitale dei social media ha semplificato il suo lavoro e ha modificato il suo modus operandi, oltre ad aver reso l’informazione più trasversale e libera, ma sostiene che quella di Twitter è comunque una piccola rivoluzione, rispetto a quella portata a suo tempo dall’avvento di televisione e stampa. Tra gli altri aspetti emersi relativi a Twitter, molto importante quanto sottolineato da Al Qassemi: durante le rivolte arabe Twitter non ha avuto il solo compito di informare, ma anche quello di coordinare e far organizzare i rivoltosi. E la Petrillo ha anche evidenziato come grazie a Twitter hanno trovato voce e opportunità altrimenti inimmaginabili anche le donne.

In definitiva, tutti d’accordo sul fatto che Twitter deve comunque essere affiancato ad altre fonti per avere una visione d’insieme più corretta e sfaccettata, fatti salvi alcuni limiti ontologici e strutturali del mezzo, è emerso nel dibattito il suo enorme potenziale, senza sapere con certezza a cosa possa un giorno portare. «Quello che mi auguro», conclude la Petrillo, «è che un giorno lo stesso ruolo che ha avuto nelle rivolte arabe, Twitter possa averlo nell’abbattimento dei muri della censura che dividono occidente da oriente, considerando che in Cina l’unico mezzo equivalente a Twitter è Weibo, un social network isolato dal resto del mondo».

Hi Tech, Low Life

Ed è proprio in Cina che ci trasferiamo con Hi Tech, Low Life, documentario prodotto e diretto da Stephen Maing, inserito nella rassegna “Mondovisioni”, che, dopo Internazionale a Ferrara, sarà in tournée in 20 diverse città italiane. Presentato al festival in anteprima nazionale, racconta 4 anni di vita di due blogger dissidenti cinesi, che svolgono attività molto simili ma con approcci quasi agli antipodi: da una parte “Zola”, 27 anni, agricoltore, con il grande sogno di diventare famoso, e “Tiger Temple”, sulla soglia dei 60, ex libraio, impegnato politicamente e con un grande senso d’umanità. Zola tenta di uscire dal grigiore della sua vita povera e umile, e trova in internet la possibilità di lanciare il proprio personaggio. È sfrontato, trasgressivo, non sa bene dove vuole andare a parare ma riesce a catalizzare l’attenzione su di sé con una semplice videocamera, un pc e pochi altri mezzi informatici made in China a basso costo. Non sa cosa deve fare un giornalista, non si sente un giornalista né un citizen journalist, ma ha un’innata capacità di raccontare e di valutare la propria immagine. Decide così di raccontare le piccole storie delle sconfinate campagne cinesi, storie che il regime nasconde, perché deve passare il messaggio che va tutto bene, quando tutto bene non va. Le politiche a favore dell’agricoltura sono morte con Mao, e le situazioni nelle sconfinate campagne sono spesso disperate. Non passa molto da quando impegno civile e libertà d’espressione diventano elementi forti del suo blog a quando le autorità decidono di oscurarglielo in Cina: per vedere il blog di Zola, bisogna essere all’estero, o navigare usando DNS stranieri.

Il picco di popolarità lo raggiunge quando segue il caso di una ragazza stuprata e assassinata dal figlio di un alto graduato di un paesino a poche centinaia di km dal suo. La versione ufficiale che viene data del tragico evento è grottesca: mentre il figlio del militare faceva delle flessioni su un ponte, la ragazza gli dichiara che non ce la fa più a vivere e si getta dal ponte, annegando. 200.000 persone visitano il suo blog, che è l’unico a dare risalto alla vicenda e metterne in ridicolo la versione ufficiale. All’apice della notorietà, Zola viene invitato in Europa come giurato in un concorso per blogger. Grande è la sua sorpresa quando scopre di essere stato inserito in una lista nera dall’ufficio immigrazione e di non poter lasciare la Cina. Per protesta, passa alcuni giorni in una tenda in riva al mare, dove viene raggiunto da alcuni fan, uno dei quali gli porta in omaggio un buffo pelouche bianco.

Tiger Temple invece vive in un piccolo appartamento a Pechino, che spesso lascia per lanciarsi in lunghi viaggi in bicicletta e raccontare storie di diseredati in giro per le campagne cinesi. Gli fa compagnia una gatta, Mongolia, che ha usato nel suo blog per esprimere il proprio dissenso dalla censura cinese. “Ho pensato che non avrebbero avuto il coraggio di censurare un gatto, e infatti m’è andata bene”. Un matrimonio fallito alle spalle, un’attività da libraio fallita anch’essa, Tiger è convinto di non avere molto da perdere e porta avanti le sue battaglie con coraggio e determinazione. Sul suo blog raccoglie fondi per aiutare i senzatetto di Pechino e divulgare le loro storie e fa sue le ingiustizie e le problematiche che gli vengono segnalate dai suoi lettori. Non ci pensa due volte quando viene chiamato in campagna da un piccolo villaggio piegato da un’alluvione e dai liquami organici e chimici che confluiscono dalla città nei loro campi. Nessuno aveva avuto i mezzi o la voglia di aiutarli, prima di lui, e nel giro di alcuni anni qualcosa è riuscito a ottenerla. 

Zola, nel frattempo, decide di riconvertirsi da citizen journalist a formatore di citizen journalist: da solo non può farcela, ma in molti potrebbero avere più chance di cambiare il sistema. Tanti aderiscono ai suoi appelli e le riunioni di blogger che organizza sono sempre più frequentate. «In Cina abbiamo una Grande Muraglia, famosa nel mondo. Ma ne abbiamo anche un’altra, è quella di internet, dove le autorità bloccano i contenuti che non gli stanno bene. Tutti insieme, dobbiamo riuscire ad abbatterla», dice Zola, e si autoritrae mentre salta sulla Muraglia Cinese: è l’immagine simbolo della battaglia.

Finalmente, in alcuni di questi meeting, ha anche modo di incontrarsi con Tiger Temple. «Sai cosa credo che sei? Sei un guerriero giocoso», gli dice Tiger, che non condivide la visione individualista di Zola del mondo, ma comunque la rispetta. Zola e Tiger lottano quotidianamente ai confini della legalità: finché saranno semplici cittadini che raccontano semplici fatti, non correranno il rischio di essere arrestati, ma sanno bene che spesso operano ai margini di questo concetto, e che nei regimi la legge codificata non è il primo requisito per essere incriminati, quanto la volontà di chi è al comando. L’agire principalmente nelle sconfinate campagne cinesi fa sì che abbiano meno attenzioni che se parlassero e agissero dalle metropoli, ma questo non li lascia esenti da episodi poco gradevoli. Zola subisce un’intimidazione, mentre dorme, da parte di un vigilante privato, forse mandato dalla polizia. Tiger, durante un convegno a Pechino di alti gerarchi, è costretto coattamente a lasciare la città e la propria abitazione, per potervi tornare solo a convegno avvenuto. E dopo lunghe pressioni da parte del governo, il padrone di casa lo sfratta, e lui riprende a fare quello che gli riesce meglio: andare in bicicletta, con cui continua ad attraversare la Cina e raccontare le storie che incontra sul blog, quando ha voglia di farlo.

Zola rassicura l’anziano padre sul suo futuro: metterà la testa a posto e metterà su famiglia, «Ci sto già lavorando», gli dice.
E così è veramente, come ci racconta in un inglese stentato in videoconferenza su Skype al termine della proiezione. Si è sposato ed è andato a vivere a Taiwan, da dove continua le proprie attività di blogger e attivista per la libertà di stampa e d’opinione in Cina. Per problemi tecnici, i primi minuti non sentiamo l’audio, ma la sua grande forza espressiva è sufficiente a raccontarci tutto con pochi gesti: sventola una piccola bandiera taiwanese e ci mostra con orgoglio il buffo pelouche che gli ha regalato il fan, mentre scioperava in tenda.

Fermate le rotative!

Se Twitter e citizen journalism riescono a compiere piccole rivoluzioni dal basso, la sfida da cogliere per i più importanti quotidiani è enorme: hanno ancora un senso nell’era digitale? E se sì, il loro posto è online o cartaceo? E ancora, nel caso fosse solo online, dovrebbe essere gratuito o a pagamento? Le complesse e ampie tematiche sono state al centro dell’incontro con Alan Rusbridger, direttore dal ’95 del Guardian, e David Carr, media columnist del New York Times, moderato da Marino Sinibaldi. Le risposte alle prime due domande hanno visto pareri concordanti, se non altro perché entrambi gli ospiti fanno parte dello stesso universo e fanno i conti con gli stessi dati: l’informazione curata da professionisti del settore ha ancora un senso, per la qualità che riesce a fornire e per la facilità con cui il lettore può accedere alle notizie principali, che altrimenti troverebbe sparpagliate in un mare magnum di opinionisti improvvisati, autori di fake, specialisti di un singolo settore.

Solo la lettura di un quotidiano riesce ancora a fornire una visione d’insieme. Purtroppo per la carta stampata, però, il declino del quotidiano cartaceo è inesorabile e incontenibile. I dati parlano addirittura di un -10% annuo di copie vendute, un vero e proprio tracollo del settore. Ne sa qualcosa Rusbridger, che col Guardian occupa la decima posizione per copie vendute nel Regno Unito tra gli 11 quotidiani nazionali, nonostante l’enorme prestigio, tradizione e qualità legati al nome del giornale. Un crollo di vendite accompagnato però a dati di segno opposto per la versione online, dove è il secondo sito di news della Gran Bretagna, con qualcosa come 67 milioni di visitatori unici mensili e una crescita su base annua di quasi il 70%.

L’enorme successo è dovuto sicuramente alla qualità del servizio offerto, si parla di una media di 400 news al giorno, ma anche alla completa gratuità della versione online, e qui appunto sta la divergenza d’opinioni rispetto a David Carr, o perlomeno alle scelte editoriali del New York Times, che ha invece optato per una soluzione intermedia: le anticipazioni delle news gratuite, gli articoli completi a pagamento. Anche il NYT, nonostante l’approccio differente, vanta un ottimo successo: 454.000 abbonati digitali. Il Guardian non esclude l’ipotesi di una versione a pagamento per il futuro, ma si interroga su quanti resterebbero fedeli e quanti invece ripiegherebbero su news gratuite, magari di minore qualità, che il web offre senza difficoltà. E tutti e due si interrogano su come il ruolo del giornalismo tradizionale possa integrarsi con quello sociale e partecipativo. Presto la possibilità di commentare un articolo o condividerlo su facebook potrebbero non bastare più, in una struttura sempre più orizzontale e democratica della rete.

2) IL WEB VISTO DAL GIORNALISMO

We are legion: the story of the hacktivists

Partecipazione, orizzontalità, attivismo, internet, ma anche confine tra giusto e sbagliato, morale e immorale, lecito e illecito, legale e illegale. Questi i temi principali del documentario We are legion, regia di Brian Knappenberger, che ripercorre la storia a tratti esilarante a tratti disgustosa a tratti entusiasmante di Anonymous, il gruppo di attivisti hacker, o hacktivists come si fanno chiamare loro, che ha fatto parlare di sé il mondo per imprese storiche contro ad esempio Scientology e siti di carte di credito, senza scordare il ruolo di supporto che hanno avuto durante le rivolte arabe.

La storia è raccontata attraverso i volti di alcuni dei partecipanti al movimento e ne ripercorre le tappe fondamentali. Sono volti che non ti aspetti: ragazzi molto giovani, una ragazzina minorenne, qualcuno più timido, qualcun altro più spavaldo, tutti con un’intelligenza evidentemente sopra la media e un senso di giustizia, un gusto per le sfide che va di pari passo con una grande leggerezza nella visione del mondo.

Leggerezza che ha accompagnato gli hacker fin dalla loro nascita, fatta risalire agli anni ’50, dove per hacking si intendeva una goliardata, compiuta più che altro in ambiti universitari o collegiali, come issare un’auto sopra un tetto. Quando il termine è stato mutuato dall’informatica, è passato a indicare persone con grandi competenze e curiosità nel capire il funzionamento delle cose. Queste abilità sono state spesso manipolate e mal interpretate dai mass media che hanno contribuito a diffondere nell’immaginario comune un senso negativo del termine.

Come gli hacker, Anonymous, quando è nato, non era affatto un paladino dei diritti civili e umani, né portava avanti crociate contro multinazionali o a favore di popoli oppressi. Era un gruppo di utenti che aveva come riferimento un sito dalla filosofia estremamente liberale e a favore della privacy, tutt’oggi esistente e attivo: 4chan.org. Questi utenti condividevano una visione del mondo cinica, disincantata e spensierata. Lanciavano numerosi meme (variazioni su un tema proposto da un utente) di carattere umoristico, spesso incomprensibile al di fuori della loro cerchia, e compivano azioni di trollaggio in giro per la rete, soprattutto contro chi aveva la brutta abitudine di prendersi troppo sul serio. Per chi non lo sapesse, scopo e divertimento primario di un troll è far arrabbiare il più possibile il proprio interlocutore, e per riuscirci usa una serie di tecniche più o meno raffinate. La prima azione in cui si coordinarono in massa fu una semplice goliardata: si iscrissero in migliaia contemporaneamente ad Habbo, una chat antenata di Second Life, tutti con avatar afro vestito di nero, e invasero la chat in massa, maltrattando gli altri utenti e facendo coi corpi dei loro avatar un muro compatto per bloccare l’accesso alla piscina virtuale, di cui gli utenti di Habbo andavano pazzi. Anche se con un’azione stupida, cominciarono a comprendere che essere un collettivo li rendeva potenti. 

Poco tempo dopo, un neonazista che godeva di una certa popolarità su internet, con una propria radio streaming, attaccò un utente di 4chan. Tanto bastò perché gli altri decidessero di rendergli la vita difficile, indipendentemente dall’atroce sgradevolezza dell’individuo, che era accidentale, non la causa. Tra stalking, telefonate di scherzo in diretta, migliaia di pizze a domicilio, attacchi al sito web, il truce neonazista dopo alcune settimane sparì completamente e definitivamente dal web. Fu allora che in una conversazione cominciò a balenare un’idea, un’immagine: «E se fossimo un’unica persona, di nome Anonymous, che cura tutti i contenuti di 4chan? E in effetti, eravamo un po’ questo».

Ma dopo questa prima battaglia, arrivò la prima guerra: Chanology. Contro le pratiche della Chiesa di Scientology di attaccare con dure azioni legali chiunque ne parlasse male, in particolare a seguito del tentativo di far sparire dal web un video in cui Tom Cruise vaneggia sulle qualità degli adepti, Anonymous fa partire una massiccia campagna, con tanto di video di dichiarazione d’intenti in cui per la prima volta si manifesta pubblicamente. Fine ultimo della campagna, dopo mesi di hackeraggio del sito e intasamento delle linee telefoniche, radunare il 2 e il 10 febbraio del 2008 persone davanti alle sedi di Scientology di tutto il mondo, mascherate da Guy Fawkes, maschera divenuta poi distintiva del movimento. La manifestazione ebbe un successo clamoroso: oltre 10.000 persone manifestarono in 200 città del mondo.
Alcuni membri di Anonymous furono rintracciati da Scientology, seguiti, diffidati con lettere legali, e un ragazzo, intervistato nel documentario, venne condannato a un anno di carcere e un anno di domiciliari.

Niente, rispetto a quanto sarebbe successo in seguito, quando se la presero con il cuore dell’America: riuscirono a mandare offline i siti di Paypal, Visa e Mastercard, colpevoli di aver negato a Wikileaks la possibilità di percepire donazioni per il sostentamento, contrariamente a quanto fatto con siti ad esempio di neonazisti. Stavolta le indagini governative furono efficaci e rapide, e portarono all’arresto di 40 hacktivisti in tutti gli USA, che rischiano fino a 15 anni di carcere e 250.000 dollari di multa.

Anonymous è costato diverse fratture interne a 4chan, di utenti che accusavano i “crociati” di essere diventati “moralisti del cazzo”, e in seguito si sono visti scavalcati per numero di azioni ed efficacia delle stesse da Lulzsec (salvo questo gruppo essere smantellato a causa di uno dei suoi utenti di punta, Sabo, in realtà infiltrato dell’FBI), con cui si sono alleati in diverse azioni. Molti, in nome dell’”essere legione” stanno rischiando di passare parte della propria vita in carcere o magari qualcosa di peggio. Eppure, col sorriso sulle labbra e lo sguardo fiero, tutti gli intervistati dicono che rifarebbero alla virgola quanto hanno fatto, e sono certi che Anonymous non morirà né presto né facilmente.

Attenti all’hacker

Senza prestare la giusta attenzione nel titolo dell’evento ai distinguo tra hacker e cybercriminali vari (salvo fare i dovuti distinguo fin dalle prime battute), si è tenuto un incontro sulla criminalità sul web che ha visto la partecipazione di Udo Gumpel (N-tv), Ewelina Jelenkowska-Lucà (Commissione Europea), Umberto Rapetto (consigliere speciale Telecom) e Vincenzo R. Spagnolo (Avvenire), moderato da Gian Paolo Accardo.

Quel che è emerso è un quadro della sicurezza su internet estremamente allarmante, come snocciola Spagnolo: in base ai dati di Symantec, nel 2011, 431 milioni di persone hanno subito attacchi informatici. Considerando che gli utenti di internet sono poco più di un miliardo, si ha la cifra sconcertante di quasi un utente su due. I danni arrecati sono stati per circa 388 miliardi di dollari, pari a tutti i proventi del narcotraffico mondiale, da ripartire in 114 miliardi di perdite economiche e 274 miliardi di valore del tempo perduto per recuperare ai danni. Il maggior numero delle vittime è concentrato in Russia (92% degli utenti), seguita dalla Cina (84%). In Italia gli utenti che hanno subito attacchi sono il 68%. Mediamente, per rimediare a un danno subito, in Italia occorrono 9 giorni lavorativi, contro ad esempio i 4 che occorrono in Inghilterra.

Tra i crimini economici più ricorrenti, si va dalle truffe ai furti di dati di carte di credito fino ai furti d’identità, mentre tra quelli contro la persona si va dallo stalking, alla pedopornografia, alla diffamazione. L’incidenza di persone che hanno subito un attacco che poi lo denunciano è estremamente bassa, tanto per la vergogna che comporta l’ingenuità avuta quanto per la scarsa fiducia nella possibilità per gli organi di polizia di venire a capo del crimine. In effetti, le strutture nazionali vigenti mal si adattano a un modello criminale che spesso viene da paesi molto lontani. Nei tempi che occorrono per coordinare le indagini e autorizzare la cattura nei due paesi interessati (quando sono solo due), i malviventi fanno tranquillamente in tempo a sparire o quantomeno a trasferire il denaro sottratto in conti protetti. 

«La verità è che chi commette crimini su internet sta sempre non uno, ma almeno due passi avanti rispetto a chi lo dovrebbe sventare, e la lotta è troppo impari», dice Rapetto. «Mettiamo ad esempio», continua il consigliere Telecom, «che in una città sfrecci a 100km orari un pazzo per vedere se riuscirà a bruciare tutti i semafori rossi, e che nella stessa città un altro automobilista rispetti tutte le regole del codice stradale. Però guida un’auto rubata. Tra le difficoltà dei controlli c’è anche che non si può limitare l’indagine solo ai soggetti palesemente pericolosi, ma occorrerebbe verificare anche crimini difficilmente registrabili, perché spesso la malavita è là che va ad agire».

D’altronde, la criminalità ha imparato a usare il mezzo informatico molto meglio delle istituzioni, e inventa tecniche sempre più nuove e raffinate per clonare, truffare, spostare fondi, riciclare. «Vengo proprio ora dal processo a Paolo Gabriele, “il Corvo”. Le indagini sono state più lunghe e difficili proprio per l’abitudine del maggiordomo di conversare con Skype invece che con il normale telefono. L’intercettazione è difficilissima nel corso dell’intera chiamata e addirittura impossibile nei primi secondi. D’altronde, questo ritardo è inevitabile e in parte giustificato dalla privacy. In Germania, ad esempio, la privacy viene messa davanti alle indagini, ed è secondo me giusto che esista una sfera privata in cui non si possa entrare».

Rapetto riporta una tecnica di truffa telematica, attuata via telefono ed SMS. «È molto utile che ci arrivi un SMS dalla carta di credito per ogni operazione eseguita. Se però ci arriva un SMS che ci dice che sono stati spesi con la tua carta 700 euro in Ucraina, a cui segue un numero telefonico da chiamare per annullare l’operazione, che si fa? Molto spesso, presi dalla frenesia, si comporrà il numero, senza rendersi conto che è un 899. Per quattro volte non riusciremo a parlare con nessuno, spendendo 12,50 euro a volta. La quinta volta, dopo una lunga attesa, riusciremo a fornire i dati della nostra carta di credito. Tutto ciò avverrà di venerdì sera, per renderci ancora più difficile il recupero del denaro, e quando ci saremo resi conto della truffa sarà già stato prelevato il prelevabile. Si chiama Vishing, ovvero voice fishing».

E in questo quadro analitico non sono stati presi in considerazione crimini terroristici in grado di paralizzare intere nazioni, la cosiddetta cyber war. Già tra ’99 e 2000 ci furono schermaglie tra Israeliani e Palestinesi, con rispettive messe offline dei siti istituzionali, e nel 2007 ci fu una paralisi delle infrastrutture critiche statali estoni, senza contare gli attacchi subiti nella Ue ad opera di cinesi.

Quali sono le soluzioni?

Una prova a darla Jelenkowska-Lucà: «L’UE ha competenze penali da poco tempo, solo dal Trattato di Lisbona. La direzione verso la quale intendiamo muoverci è quella di un organo europeo di controllo, in grado di contrastare più efficacemente le attività illecite sul web, come espresso nell’accordo Acta». Sì, peccato che l’Acta non piacesse agli utenti, che vedevano nel disegno lo spauracchio di un Grande Fratello, oltre a una feroce repressione del P2P, e ha spinto in piazza migliaia di persone a manifestare. «Non era niente di tutto ciò», si difende la Jelenkowska-Lucà, «né un trattato segreto voluto per compiacere chissà chi. Era un progetto per il quale abbiamo ricevuto incarico dai paesi dell’Ue stessi, che non introduce nessuna nuova legge, si limita ad applicare quelle già esistenti, per tutelare il patrimonio culturale europeo, che è una delle nostre risorse più importanti. D’altronde, non possiamo trascurare l’importanza economica di internet: per ogni posto di lavoro perso nel mondo “reale”, se ne creano 2,5 legati a quello “virtuale”. Nell’agenda digitale UE le infrastrutture sono una priorità assoluta, e contiamo di raddoppiare l’e-commerce attuale (3-4% del PIL totale) entro 4 anni».

Polemico rispetto all’Acta Repetto: «Comunque, l’Acta è stata bocciata dal Parlamento Europeo, per cui è inutile che discutiamo della sua bontà. Vero è che con questi apparati legislativi, statali e burocratici, il cybercrimine avrà vita facile. Oggi, il web è disciplinato principalmente dalla legge 547 del ’93, revisionata nel 2008 su base del Decreto di Budapest del 2001. Nel ’93, i pc erano “486”, gli hard disk erano da 40 mega e internet per il grande pubblico neanche esisteva».  Nel caso aveste curiosità su qual è l’attacco oggi più temibile, c’è stata risposta anche a questo: quello ai DNS, i server che contengono le informazioni degli IP di tutti i siti. Se avvenisse, sarebbe un’apocalisse digitale.

Mitchell Baker

Apocalisse digitale che sarebbe una delle ultime cose desiderate da lei. A vederla, non sembra a capo di una cosa così grossa: definita “La donna che ha reso umano il web”, inserita dal Time tra i 100 personaggi più influenti della Terra, nella Hall of Fame del web, Mitchell Baker è una signora low-profile cordiale e alla mano, durante l’intervista che le fa Anna Maria Giordano per Radio3. La Baker è Presidente di Mozilla Foundation, la persona a capo del team di sviluppo che sta dietro a Firefox, per intenderci, vale a dire il secondo (più o meno, Google Chrome lo incalza nella posizione) browser più diffuso al mondo, ma soprattutto a capo di una fondazione con una visione del web completamente antitetica e opposta rispetto alle principali software house concorrenti. «Mozilla ha una sua visione del web. La rete è nata con investimenti governativi e di privati. Mozilla a questo ha aggiunto e aggiunge la vita. Ha contatti con organizzazioni commerciali, ma si rivolge e persegue il bene della cittadinanza. Il nostro software, completamente open-source, attrae migliaia di volontari e un pugno di dipendenti devoti».

«L’unico modo che abbiamo per gestire 200.000 collaboratori volontari è non gestirli: rendiamo nota la nostra policy, la nostra visione, e poi invece che gestire “sciogliamo”: lasciamo che ognuno faccia quello che vuole, in una chiave condivisa. Uniamo sogni e speranze di persone di tutto il mondo. Il nostro sogno è che ognuno un giorno possa avere la propria casa su una nuvola (cloud)». «La nostra prossima sfida è il mondo degli smartphone. Dopo essere presenti già da tempo con la versione app del nostro browser, stiamo lavorando a un vero e proprio sistema operativo alternativo. È un terreno delicato, dove sarà difficile ritagliarsi uno spazio con un progetto no-profit, aggettivo che spesso si sposa molto male con competitivo. Sarà una sfida molto ardua contrastare lo iOS di Apple, blindato, con il nostro Firefox OS, open-source. Il mercato è molto differente rispetto a quello dove siamo entrati con il nostro browser, ma crediamo di potercela fare anche questa volta. Non sarà una sfida tra iOS, Android e Firefox OS, ma una sfida tra iOS, Android e tutto il web».

Milano, fin qui tutto bene

Terminiamo la rassegna sul digitale a Internazionale a Ferrara con due righe su un libro che è stato presentato durante il festival che di digitale non ha molto, se non l’ambientazione: Milano, la città più tecnologicamente avanzata d’Italia, e qualche vago riferimento a internet point gestiti da cingalesi e prodotti hi-tech low-cost in negozi di cinesi. È Milano, fin qui tutto bene, di Gabriella Kuruvilla (Ed. Laterza, 188 pagine, 12 Euro), uno spaccato vivido e permeato di una malinconica speranza, nostalgia, vitalità, che restituisce al lettore una città autentica nelle sue contraddizioni e nei suoi opposti. Quattro racconti per altrettante vie, narrati da altrettanti protagonisti, ai margini della città, con trascorsi di vite difficili, tra odori multietnici, lunari da sbancare, equilibri tra integrazione e razzismi, disperate solitudini e senso di partecipazione a un tutto che, in fondo, accoglie.

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