Vajont, 49 anni fa il disastro che Tina Merlin aveva (invano) annunciato

Vajont, 49 anni fa il disastro che Tina Merlin aveva (invano) annunciato

Sulla pelle viva

Introduzione

Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente, vent’anni fa, quasi tutti gli accademici illustri al potere economico, in questo caso al monopolio elettrico SADE. Che a sua volta si serviva del potere politico, in questo caso tutto democristiano, per realizzare grandi imprese a scopo di pubblica utilità – si fa per dire – dalle quali ricavava o avrebbe ricavato enormi profitti. In compenso il potere politico era al sicuro sostenuto e foraggiato da coloro ai quali si prostituiva. La regola era – ed è ancora – come in tutti gli affari vantaggiosi, quella dello scambio.
Il monumento si chiama Erto.

Anzi, Erto e Casso. Due agglomerati di sassi e terra che formano un Comune. Distanti l’uno dall’altro qualche chilometro, costruiti in cima a costoni di vecchie frane cadute forse millenni fa e sulle quali uomini scampati da pesti o persecuzioni, o forse fermatisi dopo lunghe peregrinazioni ed esodi, hanno dato inizio alla comunità ertocassana.
L’ondata terribile, provocata dalla frana del Toc che il 9 ottobre 1963 fece impazzire le acque del lago artificiale, dividendole con furore, sbatacchiandole da una sponda all’altra, facendole tracimare dalla più grande diga del mondo, schiantandole su Longarone e polverizzando il paese, ha appena lambito Casso. Ha risucchiato alcune frazioni di Erto, altre case sparse. Ha sepolto case e stalle poste sotto la montagna crollata. Ma Erto è rimasto in piedi, un po’ traballante, le case fessurate dalla sferza dell’acqua. È rimasto su, contro tutte le previsioni. Sono questi due paesi morti il monumento al Vajont. Nessun’altra stele o lapide potrà rendere con altrettanta raffigurazione la memoria del tremendo fatto la cui eco ha pervaso il mondo vent’anni fa lasciandolo stupefatto e incredulo, minando la fiducia popolare nella scienza, nella tecnica, nella politica.

La SADE, il monopolio che uccise, in fondo ci interessa poco: faceva i suoi affari come tutti gli imprenditori privati del mondo. Sapendo che li poteva impunemente fare, che glieli lasciavano fare. Era il burattinaio che tirava i fili e faceva muovere i burattini – scienziati e politici – come voleva. Il potere era la SADE, perchè il vero potere aveva abdicato. 

Erto e Casso, paesi di sopravvissuti. Non Longarone, purtroppo paese di morti. Vivi o morti, in fondo, è la stessa cosa di fronte al «fatto». Ma quassù, sul versante friulano del «grande Vajont», prima del disastrosi è vissuta una «storia» che è mancata a Longarone. Una storia di popolo, ancora sconosciuta. Di lotte, ribellioni, partecipazione civile contro i potenti, le loro angherie, le loro leggi, la trasgressione delle leggi dello Stato, la licenza di uccidere, la difesa del diritto, la rivendicazione della giustizia. L’ltalia e il resto del mondo conoscono soprattutto la storia di Longarone, tragica e spietata, quella della notte tremenda. Non la storia che generò quella notte, la storia di prima: di Erto, della sua popolazione successivamente dispersa. Perchè la storia vera si è svolta quassù. Tra questi sassi e queste antiche frane. In questo paese ora semivuoto, con le sue case di pietra, i suoi vicoli stretti, la sua unica via principale che ospitava i pochi negozi e le numerose osterie, luogo socializzante, vivacissimo, di Erto.

Da poco il municipio è stato trasferito nel nuovo paese, più a monte. Un edificio assurdo, senz’anima, che non ha niente in comune con l’ambiente attorno. E non solo il municipio, ma la chiesa, la scuola. Nessuno ha detto niente, neanche gli ertani, contro i progetti. In fondo è stata già una fortuna che il paese incominciasse a venir su, in quota di sicurezza, vent’anni dopo. Quando metà della gente era già stata sradicata, incanalata verso altri luoghi o trapiantata di peso nella piana di Pordenone, dove ha costituito un nuovo paese: Vajont.

C’è chi dice che è stato un bene andarsene. Cosa c’era da fare ormai a Erto e a Casso?
I pascoli migliori erano stati sommersi dall’acqua del bacino; i rimanenti, dalla frana. A Pordenone c’erano le fabbriche e finalmente un lavoro sicuro. Era una occasione per entrare nella «civiltà» dopo secoli di isolamento. Erto e Casso, soprattutto dopo lo choc della frana, potevano anche andare in malora. Chi, invece, non ha voluto andar via da Erto, ha sopportato nuovamente anni di umiliazioni da parte di uno Stato che ancora una volta non manteneva le sue promesse di ricostruire il paese.
Se la nuova Erto sta lentamente assumendo una fisionomia, se si è potuta ricostruire nella vallata, è merito di una resistenza tenace e di nuove aspre lotte che qui si sono svolte per non cancellare il paese, la sua storia, la sua cultura.

Ho un debito verso gli ertani: raccontare la loro storia. Oggi, dopo vent’anni in cui l’Italia e gli italiani sono stati offesi, umiliati, tiranneggiati, uccisi in mille altre maniere, forse questa storia sembrerà una delle tante «casualmente» accadute. Forse più «pulita» di quelle che accadono oggi. Ma non è così. Assomiglia molto a quelle di oggi. È contrassegnata dallo stesso marchio: il potere.
E dall’uso che ne fanno le classi politiche e sociali che lo detengono.

Vent’anni dopo

Il 28 dicembre 1966, con la posa della prima pietra, si dava il via alla costruzione di un nuovo paese nella piana di Maniago. Oggi lo abitano 225 nuclei familiari: 164 di Erto; 61 di Casso, 93 provenienti da altre località e insediatisi nel nuovo paese.
Inizialmente gli ertocassani erano convinti di rimanere amministrativamente sotto il Comune di Erto e Casso, legati ad esso da «un’isola amministrativa». Non è avvenuto così; la scissione in due Comuni è stata imposta per legge, senza una consultazione della popolazione. Con un atto autoritario. La delusione è stata forte. Ma ormai, chi aveva scelto di trasferirsi non poteva più tornare indietro.
Per avere almeno un collegamento ideale con la vecchia vallata, la gente pretese che il Comune la ricordasse almeno nel nome. Venne chiamato Vajont, e alle sue strade e piazze vennero dati nomi di località ertane spazzate via dalla valanga d’acqua, oppure di monti e siti che circondano Erto e Casso.

Vajont è un paese «inventato» e perciò senza fisionomia.
Si è tracciato sulla carta un perimetro e dentro vi si sono collocate strade, piazza, case e la gente. Certamente ha molti più servizi di Erto e Casso, strade larghe, con alberi ai lati, che quando cresceranno del tutto daranno agli abitanti l’illusione di assomigliare a quelli dei loro boschi antichi. La gente fa di tutto per ricrearsi il verde perduto; ogni casa ha un giardino, un orto. Ma inseriti in questa pianura, gli ertocassani hanno perduto la loro personalità. Gli anziani sono taciturni. Se qualcuno che li ha conosciuti nel loro ambiente naturale della vallata del Vajont va a trovarli, parlano a stento, trattenendo ricordi e dolore. La domenica molti si mettono in macchina e risalgono la Valcellina fino al paese. Aprono le imposte delle vecchie case abbandonate, zappano gli orti, prendono il sole sogli usci, vanno nelle vecchie osterie a bere un bicchiere di vino e a scambiare quattro chiacchiere con i residenti, illudendosi di stare ancora lì. Nelle ricorrenze importanti – Venerdì santo, Pasqua, ferragosto, i Morti, Natale – si ritrovano tutti a Erto. “Sai – mi dice con la voce che le trema Maria Corona, che gestisce un negozio di alimentari nel nuovo paese – non ho mai sognato Vajont. Tutti i miei sogni sono ambientati a Erto. Qui mi sento come prigioniera. Solo per i giovani ci sarà un avvenire”.

I giovani. Cosa sanno della SADE, delle lotte dei loro genitori, dei soprusi dei potenti contro una comunità che chiedeva solo di vivere e lavorare in pace? Sono passati venti anni, è cresciuta una nuova generazione, qui, in un altro mondo. In un bar della piazza, tre-quattro ragazzi parlano fra di loro a voce alta, scherzano.
Chiedo: “Siete di Vajont?”. La risposta è pronta e secca, orgogliosa: “No, noi siamo ertani”. “Ma non siete nati qui? Non abitate a Vajont?” “Sì, ma siamo ertani, siamo di razza cimbra!”. Cerco di sapere cosa conoscono di prima e di dopo la tragedia. Poco, quasi nulla. Sono figli di gente distrutta, che preferisce dimenticare. Ma questi ragazzi sono curiosi, mi si fanno attorno, domandano.

E il lavoro, che è stato uno dei principali motivi della scelta di trasferirsi? La zona industriale prevista dalla legge del Vajont è nata fuori dal Comune, nel territorio di Maniago. Abbastanza vicino, ma fuori dalla giurisdizione amministrativa del nuovo paese, fuori da un suo controllo. In essa si sono trasferiti reparti di industrie già esistenti a Pordenone – come la Zanussi – che hanno beneficiato, per questa operazione di sdoppiamento e decentramento, delle provvidenze governative. Poche le vere “nuove” industrie. E pochi gli ertocassani che vi hanno trovato lavoro. Dice amaramente il sindaco comunista Delfino Zoldan: “Per gli industriali, quelli di Vajont hanno una targa sulla fronte. Quando hanno trovato lavoro nella zona industriale sono tutti finiti o in fonderia o alla pressofusione”. Come i lavoratori del Terzo mondo.
Gli altri continuano ad emigrare, come facevano a Erto.

A Erto si è iniziato a costruire, a quota 830, solo nel 1971, quasi dieci anni dopo il disastro. Dieci anni di stressanti, dure lotte del gruppo che aveva scelto di restare. La località si chiama Stortàn. Un versante collinoso che guarda il lago, bello, battuto dal sole. Il nuovo paese è costruito su terrazze e si snoda a tornanti partendo dalla quasi-piazza del nuovo municipio e dalla chiesa, due orrendi fabbricati che fanno a pugni con l’ambiente, che forse potevano andar bene nella zona pianeggiante di Vajont. Le nuove case hanno un bell’aspetto; sono casevillette; s’è usato molto legno. Ai suoi piedi c’è il vecchio abitato di Erto, un caratteristico agglomerato urbanistico fatto di sassi. A suo tempo hanno scelto di restare in valle 150 nuclei familiari, che in seguito sono cresciuti col formarsi di nuove famiglie.

Gli appartamenti ammessi ai contributi di legge sono 150: un terzo sono finiti, un altro terzo in fase di ultimazione, il rimanente terzo ancora da iniziare. I finanziamenti dello Stato, per un esecrabile meccanismo burocratico, vengono a singhiozzo. Un esempio: lo Stato stanzia due miliardi per un blocco di lavori che deve durare due anni, già assegnato al Comune (per opere pubbliche) o a privati (per abitazioni). Alla fine del primo anno, richiama dalla Regione i denari non spesi perchè deve rimetterli in bilancio. Per ristanziarli l’anno dopo. Ma prima che arrivino ai destinatari o vengano spesi, sono nuovamente richiamati per il successivo bilancio. È la storia del “sior Intento” che dura molto tempo e non finisce mai. E intanto i costi aumentano: i 5 e gli 8 milioni per unità immobiliare (di due tipi) previsti dalla legge del 1963, adesso sono stati portati a 16-20. Ma con questi soldi, oggi, uno la casa non se la fa. E allora resta “mezza su e mezza giù” e il proprietario continua ad abitare nella vecchia casa di Erto.

Come si è detto, numerose di queste case sono disabitate e si aprono soltanto la domenica o nelle ricorrenze ad accogliere, per una giornata, quelli di Vajont. Erto è per metà spopolato. Quelli che sono rimasti conservano però la socievolezza di un tempo, anche se le tradizionali battute di spirito si sono un po’ smorzate e, alla fine, non hanno più senso. Sono stati riaperti tre bar e qualche negozio, sempre nel vecchio paese; un bar vicino al nuovo municipio, a Stortàn. La vita si snoda sempre lungo l’unica via stretta che attraversa longitudinalmente il borgo. Anche quando tutte le case saranno fabbricate nella zona di Stortàn, lo spirito di Erto aleggerà qui.

Il vecchio borgo è, e rimarrà, per lunghi anni, il cuore della collettività ertana. Qui, il Venerdì santo, dopo una pausa di qualche anno succeduta al disastro, è stata ripresa la rappresentazione popolare della Passione di Cristo. Migliaia di persone arrivano dai versanti friulano e bellunese della vallata. E tutti gli ertocassani dispersi per ogni dove. Ci sono più riflettori, più messa in scena. Ma anche più artifizio, meno spontaneità, più spettacolo. Meno intimità e più consumismo.
Gli ertani rimasti a Erto non hanno ancora perdonato quelli che se ne sono andati. Fanno salvo il diritto che ognuno aveva di scegliere, ma è proprio scegliendo di andarsene – dicono – che si sono resi corresponsabili della seconda tragedia abbattutasi su di loro: la spaccatura della comunità. “Se restavano qui, se si battevano con noi, il paese a quota Stortàn sarebbe rinato subito e saremmo ancora tutti uniti”.

Ma chi sono i veri responsabili dell’esodo?
“Prima di tutto i politici e i loro tirapiedi: il sindaco De Damiani diceva ‘restiamo uniti’ e intanto costruiva a Vajont; il dottor Gallo proclamava che bisognava restare a Erto ma intanto costruiva a Longarone; chi lottava davvero per Erto era considerato sovversivo e perseguitato. La gente era disorientata, non capiva più niente. Alla fine, la maggioranza è andata dove si costruiva prima, e si costruiva prima a Vajont perchè i democristiani lo volevano. O meglio, lo volevano gli imprenditori per avere una zona industriale in pianura, vicino al centro in sviluppo di Pordenone, con la scusa di costruirla per gli ertocassani che si trasferivano. Abbiamo poi visto come è andata!”
Insomma, è stata una “scelta” pilotata, concordata ancora una volta tra il potere economico e il potere politico, per spartirsi denari e prebende sulla pelle del popolo “avente diritto”. Per tacitare gli ertani di Erto si era promesso una piccola “zona industriale” anche per loro, a Pinedo, tra Cimolais e Claut. Era stata delimitata, vi si erano anche installate un paio di piccole fabbriche. Fumo negli occhi. “Adesso – dice il sindaco Virgilio Barzan – sono sparite, e la zona è abbandonata”.

Il lago del Vajont non è più una minaccia. L’acqua è scesa a quota 632 metri; non dà più fastidio alla montagna che si è stabilizzata. L’impianto elettrico è usato come scarico di fondo per mantenere il lago a tale quota; l’acqua viene fatta defluire, attraverso una galleria, dietro la diga e scaricata nella forra del Vajont. Circolano voci che l’ENEL voglia mettere in esercizio l’impianto così com’è, ma nessuno sa nulla di preciso. Sulla spalletta destra della diga, dove sorgevano il posto di guardia e la cabina comando del cantiere spazzati via dall’ondata, adesso c’è una cappella con i nomi dei tecnici periti nel “compimento del loro dovere” che era, in quel 9 ottobre, farsi ammazzare in nome del monopolio e dello Stato che lo aveva incorporato. Di ogni stagione – specialmente dalla primavera all’autunno – qualsiasi giorno della settimana si transiti sulla strada che da Longarone porta a Erto, si possono osservare gruppi di persone in sosta a scrutare il desolato paesaggio della vallata sconvolta. Così da 20 anni.

Casso: il borgo è quasi del tutto abbandonato.
Vi abita ancora qualche vecchio, che non ha nessuno e che vuol morire sul posto. Le case, che qui non hanno subito quasi alcun danno, resteranno a testimoniare – si spera – di un insediamento urbanistico tipico, di una civiltà antica sviluppatasi per millenni su queste montagne. Fatte di sassi – come quelle di Erto – dissepolti dalle montagne o raccolti secoli fa nel greto del Vajont, trasportati sul posto con estenuante fatica delle braccia e della schiena, cementati con la malta intrisa di sudore di un popolo che si chiamava “di Casso”. Passando sulla sottostante strada, ora asfaltata, che scavalca per chilometri la frana del Toc, Casso si scorge in alto, a ridosso del monte Salta, quasi come una cittadella medioevale.

Toc, monte malato; Salta, monte che trema.
La toponomastica locale rivela antiche saggezze dei primi abitanti insediatisi nella valle, conoscitori di terreni e di rocce, assai più esperti degli “esperti” venuti dopo.

Giugno 1982
L’azione legale intentata a suo tempo dal Comune di Erto contro la SADE e l’ENEL si conclude, 19 anni dopo il disastro. La Corte di Cassazione sentenzia che ha ragione il Comune sinistrato, al quale la Società elettrica – ora Montedison – e l’ente di Stato devono rifondere i danni morali e materiali causati dalla catastrofe.
I danni materiali sono i ponti, le strade, i sentieri, le teleferiche, la diminuzione della popolazione, gli immobili di proprietà comunale.
I danni morali sono i morti, la distruzione della comunità locale, il trauma che i superstiti si porteranno dentro per tutta la vita.
In ogni caso è molto probabile che per questo secondo aspetto l’ente locale si rimetta al giudice, il quale si varrà, forse, dell’aiuto di sociologi e psicologi per “quantificare” il danno e la sua natura. I due Comuni di Erto e Vajont, che non avevano ancora diviso le proprietà comunali anche in attesa di questa sentenza, dovranno finalmente accingersi a farlo. Si valuterà, molto probabilmente, in base alla popolazione rimasta a Erto e a quella stabilitasi a Vajont dopo il disastro.
Non andrà tutto liscio. Nasceranno nuove diffidenze, rivendicazioni, polemiche. Si spegnerà ancora un poco l’anima del Vajont.

Il sito dell’Associazione culturale Tina Merlin
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