Fatto l’uomo (e il suo guardaroba), fatta la noia. Destino amaro e ineluttabile che accompagna il maschio italiano, ma che in qualche misura lo aiuta a destreggiarsi nelle occasioni più diverse che la vita di relazione pone sul suo percorso. Appuntamenti di lavoro, colloqui di lavoro, esami universitari, amori, amorazzi, consigli di amministrazione, inutili riunioni aziendali, generalmente risolti – tutti o quasi – con la stessa litania di una grisaglia depressiva e una patetica cravatta blu. Poi dicono perché le donne si stancano di gente così.
Appunto, le donne. Le donne possono cambiare, ne hanno facoltà, spesso hanno la grazia, spesso no. Ma insomma, il mondo a colori del genere femminile definisce (o definiva?) in maniera inequivocabile la portata di una situazione. Il suo tono. La sua diversità sociale. Si sono scritti fiumi di inchiostro sull’abbigliamento più consono da tenere in certi appuntamenti, fatiche letterarie sono state spese per identificare le nostre posture sotto il profilo psicanalitico – accavallo delle gambe, scavallo delle gambe, gambe incrociate, mani intrecciate, mani sulle gambe, busto eretto, busto in torsione, spalle incassate – insomma tutto l’armamentario stilistico-morfologico per definire al milligrammo il nostro punto di emozione di fronte a un signore che ci sta interrogando (o ascoltando). E nei confronti del quale si abbia quel legittimo cicinin di paura.
Se il colloquio di lavoro ha sempre lasciato un territorio di libertà interpretativa, ponendo preventivamente le domande del caso: è opportuno «attaccare» frontalmente la controparte con un abbigliamento un filo aggressivo (gonna e magari tacco) o meglio limitarsi a una disciplina stilistica di basso profilo che costringa l’interlocutore a valutarci per quello che (esattamente) siamo?, la testimonianza in un Tribunale di fronte a un giudice penale è uno di quei momenti in cui non c’è trippa per gatti: il basso profilo sarà obbligo morale, ci si dovrà comprimere sino a un onesto annullamento della personalità, e una patina di opportuno cerone grigiastro ci consentirà d’essere scambiata per una ragazza tutta chiesa e famiglia. Di fronte a un giudice, peraltro, anche la persona più cristallina prova quella leggera sensazione di instabilità e l’irragionevole paura d’essere tradotto in gabbia da un momento all’altro.
Noi almeno si credeva così sino a quando…
Sino a quando sono arrivate le Olgettine, sì proprio loro, l’orda famelica e spolpante che ha drenato fondi inimmaginabili al povero Cavaliere, costretto a un mutuo cinquantennale che ricadrà certamente anche sui nipoti. Anche a Palazzo di Giustizia le fanciulline hanno tenuto il punto, mostrando il meglio di Montenapo, condensato, per necessità, in quella ventina di udienze nelle quali, purtroppo, non hanno potuto esibire interamente il guardaroba. Altra storia, invece, per le presunte vittime, le fanciulline che piangevano durante i festoni di Arcore e che nottetempo scappavano impaurite dal Mostro. Per loro, a Palazzo, solo jeans e ballerine. Per marcare una differenza morale.
Si aspettava quindi, con una certa curiosità, la prima uscita della Fiorito-girl, Samantha Weruska Reali, ci si interrogava su quale congiunzione stilistica si sarebbe attestata dovendo contemplare, nello stesso momento, il mondo tamarro dell’ex fidanzatone (attualmente in galera), con una presa di distanza netta e inequivocabile dalle di lui pratiche così poco eleganti.
Il punto di sintesi, a suo modo perfetto, è la definitiva consacrazione dell’immaginario «MariaDeFilippi» al potere: capello biondissimo piastratissimo, occhialone fatale, giacchino più da sera che da giorno, il tutto nella speranza (legittima) di assestare un colpo d’effetto al giudice-tronista, il Costantino delle aule giudiziarie.
Come sia finita questa puntata di «Uomini e Donne» non sappiamo. Dicono che il racconto di Samantha Weruska non abbia convinto per nulla i magistrati. Ma questa è un’altra storia.
Per la serie: meglio tornare a gonnone kilt con spilla da balia?