Arrivano i manager per le imprese confiscate alla mafia

Arrivano i manager per le imprese confiscate alla mafia

Se in un momento di crisi anche i marchi più solidi non navigano in buone acque, figuriamoci le aziende confiscate alla criminalità organizzata. Dopo una gestione all’insegna dello scialo di denaro illecito, le imprese dei boss si ritrovano a dover fare i conti con le regole del mercato. Le banche chiudono i rubinetti e le ipoteche fanno il resto. Così, solo il 4% sopravvive. Nella maggior parte dei casi, le aziende finiscono per abbassare le saracinesche sia per la cattiva gestione dei nuovi dirigenti sia per le lungaggini burocratiche dal sequestro alla confisca. Per risollevare le sorti delle attività economiche confiscate alle mafie e rimetterle sul mercato, a fine 2011 è stato avviato un progetto di formazione per manager in grado di gestire le aziende sottratte ai boss. Dopo sette mesi, una white list di 63 imprenditori antimafia è pronta per amministrare con i soldi puliti i beni che prima macinavano il denaro dei mafiosi. 

L’iniziativa è stata organizzata dall’Agenzia nazionale dei beni confiscati, assieme ad Assolombarda, Associazione lombarda dirigenti aziende industriali e Fondirigenti in collaborazione con Fondazione Istud di Stresa, Sda Bocconi e Luiss School of Management. Il tutto, con il patrocinio del ministero dell’Interno. I manager, provenienti da aziende lombarde e in parte senza lavoro, sono stati selezionati tra 250 curriculum. Età media: 52 anni. Dieci le donne. Un modo nuovo per rilanciare manager e top manager messi da parte dalla crisi economica.

«Gli imprenditori sono stati coinvolti in una attività di formazione on the job e d’aula che ha prodotto, nell’arco di quattro mesi, 14 report dettagliati sullo stato di salute di altrettante aziende confiscate, prevalentemente al Sud Italia, con l’indicazione delle opzioni strategiche che serviranno all’Agenzia (dei beni confiscati, ndr) per definire le soluzioni di destinazione delle imprese stesse», spiegano dalla Fondazione Istud. Tra le aziende esaminate, ci sono la Lara, impresa di manutenzioni della base Nato di Sigonella, e l’azienda agricola Suvignano di Siena. Sei sono imprese turistiche, tre sanitarie, tre manifatturiere. Gli imprenditori, dopo quattro mesi di lezioni e simulazioni, hanno messo a punto strategie di ripresa economica per ciascuna delle aziende esaminate. E i risultati ora sono stati presentati alla Agenzia per i beni confiscati. 

In Italia dal 2010 i beni sequestrati e poi confiscati alla criminalità organizzata sono gestiti da una Agenzia nazionale. Sede centrale: Reggio Calabria, lo stesso comune sciolto per «continguità mafiose» dal Viminale il 9 ottobre scorso. Tra le motivazioni presenti nella relazione della Commissione d’accesso, guarda caso, c’era proprio la gestione «preoccupante» dei beni confiscati alle cosche reggine. In base ai dati dell’Agenzia (che vanta 8,2 milioni di euro di previsioni di entrata nel 2012), su 12.472 beni (dati al marzo 2012) si contano 1.516 aziende (oggi ammontano a 1.639). Di queste, solo 57 risultano attive sul mercato e solo 67 hanno dei dipendenti. In Lombardia, quinta regione per numero di beni confiscati e terza per numero di aziende, il dato diminuisce ancora: delle 57 attive, solo quattro imprese risiedono nella regione, occupando 16 dipendenti sui 517 totali. La sopravvivenza, spiegano, è maggiore al Sud rispetto al Nord. «Questo dipende», dice Marella Caramazza, direttrice di Istud, «da un know how specifico acquisito nel Meridione nel corso degli anni».

Il problema principale per queste aziende restano i tempi burocratici. Dal sequestro alla confisca, passano dagli otto ai dieci anni. Un periodo di transizione, durante il quale «la gestione è improntata fondamentalmente alla tutela e conservazione dell’azienda, ciò che determina, in assenza di investimenti, il progressivo deperimento del patrimonio e delle possibilità di sopravvivenza», dicono dall’Istud. E un conto è restaurare e rimettere a nuovo un palazzo abitato da boss e famiglia, un altro rimettere sul mercato un’azienda vissuta dribblando le leggi di mercato e truccando l’assegnazione degli appalti.

Al momento del sequestro, spiega il paper prodotto da Istud, «l’azienda subisce un trauma». I vantaggi competitivi illegali sui quali si fonda il funzionamento delle imprese di proprietà mafiosa, dal lavoro nero all’evasione fiscale fino all’alterazione della concorrenza, vengono meno. Dall’altra parte, le istituzioni non sono pronte a farsi carico di queste zavorre, con un sistema normativo «instabile e in fase di elaborazione e definizione». Poi ci si mettono pure le banche: appena arriva il sequestro, i fidi vengono revocati, creando problemi di liquidità. Il risultato finale nella maggior parte dei casi è la messa in liquidazione e la perdita del lavoro per i dipendenti. Tanto che non sono pochi gli operai licenziati che rimpiangono i vecchi padroni mafiosi. Terribile, ma «quando c’erano loro almeno avevamo il lavoro», dicono in tanti. Tanto più che le finalità sociali per le quali alcuni beni vengono assegnati a onlus e cooperative non sempre si combinano con le esigenze economiche.

«La gestione dei beni sia mobili sia immobili ha avuto da parte degli amministratori giudiziari un atteggiamento prettamente conservativo», ha detto il prefetto Giuseppe Caruso nel corso del Convegno finale del progetto di formazione dei manager. «In relazione alla complessità di queste aziende non è più sufficiente l’amministratore giudiziario che abbia una competenza di commercialista. Abbiamo bisogno di amministratori giudiziari che abbiano doti di commercialisti forensi e anche gestionali».

«È evidente il differenziale che un contributo manageriale potrebbe produrre», si legge nella sintesi finale del progetto, «sia per il profilo di competenze, sia per la estraneità e neutralità rispetto al fenomeno e alle connotazioni territoriali dello stesso. L’impiego di tali professionalità, al fianco di quelle dell’amministratore giudiziario in maniera strutturale, fin dall’inizio del procedimento cautelare, nelle fasi di valutazione, gestione e definizione delle opzioni di destinazione, potrebbe dare un decisivo contributo alla sopravvivenza e allo sviluppo delle imprese». Perché, come molti continuano a ripetere, «il futuro dell’azienda dipende dalle fasi iniziali successive al sequestro». 

«È arrivato il momento di rivedere la legge sul riutilizzo dei beni, soprattutto per mantenere il livello occupazionale delle aziende», ha detto il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel corso della presentazione del primo Festival dei beni confiscati che si aperto oggi a Milano. La legge stessa, ha ricordato Grasso, «non prevede il mantenimento in gestione dell’impresa e i blocchi burocratici previsti non permettono di poter operare a livelli manageriali».  

La proposta delle business school che hanno partecipato al progetto, è che «lo Stato e tutti i soggetti istituzionali competenti» accompagnino «l’impresa per tutta la fase del turnaround, sia dal punto di vista della velocizzazione legale e burocratica, sia delle garanzie (accesso al credito, crediti e debiti, finanziamenti all’innovazione e alla formazione, ecc.), sia dell’accesso al mercato (partnership con grandi imprese sane, accesso a gare, creazione di reti, ecc.)». Oltre alla istituzione di un nuovo albo specifico per i commercialisti che si occuperanno della gestione dei beni confiscati, viene avanzata l’idea dell’inserimento, per la valutazione e gestione delle aziende, «di figure manageriali non iscritte agli albi, accanto a quelle iscritte agli albi, individuate e formate dalle associazioni di categoria e dalla Anbsc con apposite convenzioni».

Eppure, come riporta l’Economist, diversi studi accademici mostrerebbero come una delle ragioni per la quale Cina e India sono più povere rispetto agli Stati Uniti è che le aziende improduttive esistenti in questi Paesi possono sopravvivere molto più facilmente che in Nord America grazie alla mancanza di serietà dei manager e a un mercato dei capitali arretrato. Non solo malagestione, insomma. Secondo il settimanale inglese il problema non sarebbe tanto l’assenza di know how  dei manager italiani quanto l’intero humus della società del Mezzogiorno d’Italia a causare l’improduttività delle imprese e a impedire a ottimi manager di avere successo. Dimenticando, però, che molte delle aziende confiscate alle mafie si trovano anche al Nord.

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