Durante la campagna elettorale, lo sfidante Mitt Romney ha più volte tuonato contro il rivale, basando parte della sua strategia sulla critica sia ai tagli già decisi, sia all’ulteriore riduzione di altri 500 miliardi di dollari nel bilancio del Pentagono che scatterà automaticamente il 3 gennaio 2013 se al Congresso non si troverà un accordo bipartisan sugli strumenti e sulle modalità per ridurre l’enorme deficit federale che ormai ha raggiunto l’astronomica somma di quasi 16mila miliardi di dollari. Le misure di contenimento del deficit, unite al prevedibile aumento delle tasse, sono uno scenario da incubo chiamato “fiscal cliff”, che i repubblicani imputano all’amministrazione Obama, colpevole di non aver saputo contenere le spese e, anzi, di averle dilatate anche grazie ai costi del programma che garantirà il diritto all’assistenza sanitaria per 40 milioni di americani che prima non l’avevano. I previsti tagli automatici, invece, in realtà votati sia dai repubblicani, sia dai democratici, sono stati battezzati significativamente “sequestration act”.
Come sappiamo, il tentativo di Romney di far leva su un argomento delicato come la difesa nazionale, al quale il suo elettorato è particolarmente sensibile, non ha avuto successo. A nulla è servita anche la mossa di denunciare il tentativo di Obama di aggirare una legge del 1988 (il cosiddetto “Worker Adjustment and Retraining Notification Act”, ovvero WARN Act) che impone alle aziende con oltre 100 dipendenti di avvertirli, quando si profilano licenziamenti di massa, con 60 giorni di anticipo.
Preoccupato dei riflessi che i licenziamenti causati dai tagli alla Difesa avrebbero avuto sulla sua campagna elettorale, Obama avrebbe dichiarato “inopportuna” la spedizione degli avvisi ai dipendenti delle grandi aziende che, secondo i repubblicani, proprio grazie alle misure automatiche di contenimento del budget, perderanno in breve 200mila addetti e a lungo termine 1,5 milioni su un comparto che negli Usa ne occupa 3,5. Previsioni giudicate troppo pessimistiche, ma ciò che ha reso furibondi i repubblicani è che Obama avrebbe offerto alle aziende di pagare (ovviamente con denaro pubblico) le sanzioni previste per chi viola il WARN Act. Alle “indicazioni” di Obama avrebbe aderito Robert Stevens, CEO del gigante dell’industria militare Lockeed Martin, il quale pare non abbia recapitato gli avvisi a tutti i suoi 123mila dipendenti per avvertirli che circa 10mila di loro rischiavano il posto. Le maestranze avrebbero dovuto ricevere l’avviso il 2 novembre, cioè appena quattro giorni prima delle elezioni.
Il DoD dovrà sicuramente rinunciare ai famosi 487 miliardi di dollari in 10, dei quali 259 nel quinquennio 2013-2017, cioè un intervallo di tempo più contenuto e vicino durante il quale risulterà più semplice monitorare gli effetti delle riduzioni di spesa. Se poi scatterà anche l’altra tranche di tagli automatici per 500 miliardi, saranno davvero dolori per il Pentagono, che ha visto il suo budget crescere ininterrottamente a partire dall’attacco alle Torri Gemelle del 2001.
Tanto per cominciare, il segretario alla Difesa Leon Panetta ha annunciato che il bilancio per l’anno fiscale 2013 sarà di 525 miliardi, più altri 88 per le operazioni in Afghanistan. Il totale è inferiore di 33 miliardi a quello dell’esercizio 2012. Lo staff di Obama ha fatto di tutto per tranquillizzare gli animi e per dimostrare che gli effetti dei tagli sui dipendenti dell’industria militare e della stessa Difesa non ci saranno o non saranno così drammatici come dichiarato dai repubblicani, ma già subito dopo il taglio decennale di 487 miliardi, Panetta aveva dichiarato che «al termine del provvedimento, tra 10 anni, le forze di terra americane saranno più piccole di quelle del 1940, avremo la Marina più piccola dal 1915 e l’Aeronautica più piccola di sempre». Il generale Joseph Dunford Jr., assistente al comandante del corpo dei Marines, aveva a sua volta rincarato la dose dichiarando che «i tagli lasceranno i Marines senza adeguate capacità di sostenere anche una singola, grande operazione».
In pratica, il generale, almeno per quanto riguarda i suoi Marines, ha demolito con una sola frase uno dei cardini della Strategic Guidance 2012, il documento di Obama con le linee di sviluppo delle Forze Armate americane dopo i primi 487 miliardi di tagli che, al punto 2), prevedeva «la messa a punto di piani e strumenti per sconfiggere un avversario di grandi dimensioni in un determinato teatro e, contemporaneamente, respingere l’aggressione da parte di un altro o renderla inaccettabile in termini di costi economico-politici».
Dal punto di vista militare, non è facile confutare le tesi di chi, interno o esterno all’establishment militare e indipendentemente dagli schieramenti politici, sostiene che, dalla contrazione del bilancio della Difesa, soprattutto se penalizzata dagli ulteriori 500 miliardi di dollari previsti dai “sequestration cuts”, le Forze Armate Usa usciranno notevolmente indebolite. Il caccia F35 di Lockheed Martin potrebbe subire un vistoso ridimensionamento negli esemplari da acquistare, subendo così la terza revisione al ribasso del programma in tre anni.
Ovviamente, ridurre la produzione totale o anche solo diluirla negli anni significherebbe far salire il costo unitario di ogni aereo, e poiché quello dell’F35 è un programma multinazionale, potrebbero esserci sgradevoli contraccolpi economici anche per i Paesi partner, Italia compresa.
È già certo, invece, il disarmo della prima portaerei nucleare della storia, la celeberrima CVN 65 Enterprise, che inizierà la procedura di disattivazione dei suoi otto reattori nella prima decade del prossimo dicembre, cioè con tre anni di anticipo rispetto alla prevista data di entrata in servizio dell’unità destinata a sostituirla, la Gerald Ford, attualmente in costruzione nei cantieri Northrop Grumma di Newport News. In questo modo, le portaerei dell’US Navy scenderanno, anche se solo temporaneamente, a sole 10 unità contro le 11 promesse e ritenute indispensabili dallo stesso Obama.
Non risultano ancora ordinate le unità successive alla Ford che dovranno rimpiazzare le unità più anziane della classe Nimitz, appunto la Nimitz e la Eisenhower, in servizio, rispettivamente, dal 1975 e dal 1977. Sicuro anche il ritiro di 27 aerei cargo C5A per il trasporto strategico, mentre quello tattico perderà 65 C130 delle versioni più anziane e tutti i 38 (nuovissimi) bimotori C27 dell’italiana Alenia, considerati «un settore di nicchia del trasporto aereo non più necessario».
Verranno cancellati i programmi dell’aereo senza pilota Global Hawk Block 30, i cui costi di sviluppo sono saliti a tal punto da rendere nuovamente conveniente la permanenza in servizio dei venerandi aerei-spia pilotati U2, del satellite meteorologico militare DWSS e dei veicoli tattici HMMWV. Saranno prematuramente ritirati dal servizio sette incrociatori della classe Ticonderoga ancora privi di capacità di difesa ABM contro i missili balistici, mentre il programma dei sottomarini nucleari della classe Virginia sarà rallentato, così come quello di sviluppo del munizionamento di precisione JAGM (Joint Air-to-Ground Munition) e dell’ammodernamento della flotta di elicotteri UH1 e CH47 dell’Aviazione dell’Esercito. Slittano in avanti anche i piani di acquisizione delle grandi navi anfibie tipo LHA e di due delle velocissime unità d’attacco LCS (Littoral Combat Ships), mentre verranno ritirate prematuramente dal servizio altre due unità da assalto anfibio tipo LSD, mentre ancora non è ben chiaro che cosa accadrà ai tre grandi (e costosissimi) cacciatorpedinieri della classe Zumwalt (DDG 1000) ora in costruzione. Tutto ciò, è bene ribadirlo, senza che siano noti i possibili effetti dei temutissimi “sequestration cuts”.
Il pesante ridimensionamento delle Forze Armate americane viene avviato proprio ora che sullo scenario internazionale si rinforza ogni giorno di più la potenza militare cinese che sta facendo aumentare le tensioni nello scacchiere asiatico e si riaffaccia la Russia di Putin che intende rinnovare le sue Forze Armate anche grazie agli immensi introiti generati dall’esportazione di petrolio e gas. E c’è anche un provvedimento che riguarda da vicino l’Europa, visto che è previsto addirittura il dimezzamento delle forze americane basate nel vecchio continente.
Un segnale inequivocabile che indica come gli Stati Uniti siano sempre meno disposti ad accollarsi le spese per una difesa congiunta del continente in ambito Nato, un compito che sempre di più dovrà (o meglio, dovrebbe) essere assunto proprio dai singoli Paesi europei che, al contrario, alle prese con una crisi economia che non lascia respiro, a loro volta stanno progressivamente assottigliando i fondi da destinare al rinnovamento delle loro Forze Armate.
Anche le grandi aziende della difesa americane, si preparano al peggio, e Dan Gouré, vicepresidente del Lexington Institute (un’organizzazione che riceve ampie sovvenzioni dall’industria militare) e membro del Departmente of Homeland Security, ha dichiarato che “i potenziali tagli alla Difesa pongono la sicurezza nazionale di fronte a rischi intollerabili e alla perdita di capacità insostituibili nel progettare, ingegnerizzare e produrre strumenti militari”. Un recente studio dell’Associazione delle Industrie Spaziali americane (certo, da considerare di parte e quindi da prendere con le dovute cautele) ha stimato che i “sequestration cuts” potrebbero eliminare 2 milioni di posti di lavoro e far salire dell’1,5% il tasso di disoccupazione nazionale.