NEW YORK – Il sì dell’Onu alla Palestina è arrivato. Certo, il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, avrebbe voluto riceverlo l’anno scorso dal Consiglio di Sicurezza e diventare così il 194esimo Paese Membro delle Nazioni Unite. Ma anche se simbolico, il voto di ieri all’Assemblea Generale, è stata una conquista estremamente importante per il popolo palestinese, abituato nella sua storia a incassare più sconfitte che successi.
Non è più un’entità, ma un “Paese osservatore non membro”. Questo significa che, come il Vaticano, non avrà poteri di voto, la sua bandiera non sventolerà insieme alle altre nel cortile del Palazzo di Vetro, ma rispetto al precedente status avrà la possibilità di accedere a molte agenzie e organizzazioni, come la Corte Penale Internazionale dell’Aja.
Nel 2011, Abu Mazen, facendo forse il passo più lungo della gamba, ha sfidato inutilmente la minaccia di veto americana. Quest’anno è tornato, nonostante le forti pressioni statunitensi e israeliane, a non farlo. Commosso, prima del voto, dal podio dell’Assemblea Generale, ha chiesto alla più grande organizzazione internazionale di dare alla Palestina «un certificato di nascita», sessantacinque anni dopo averlo dato, nello stesso giorno, ad Israele (che poi divenne membro dell’Onu nel 1949), quando ci fu il voto storico sulla spartizione della Terra Santa in due territori, uno ebraico e l’altro arabo (quest’ultimo poi rifiutò la risoluzione).
«È arrivato Il momento per il mondo di dire stop all’aggressione, all’occupazione e alle colonie», ha detto il leader dell’Anp guardando fisso sull’Assemblea, ma con in mente la sua gente, scesa in piazza a seguire lo storico evento dai teleschermi. «Non siamo venuti qui per cercare di delegittimare uno Stato nato anni fa, Israele, ma per affermare la legittimazione di uno Paese che deve raggiungere la sua indipendenza. Non vogliamo complicare i negoziati di pace, ma anzi siamo qui per dargli nuova linfa… Il voto di oggi è l’ultima chance per salvare la soluzione dei due Stati».
Di tutt’altro avviso ovviamente Susan Rice. L’ambasciatrice americana all’Onu ha ribadito, subito dopo aver espresso voto contrario (all’Assemblea Generale non esistono i veti), che «questa risoluzione non stabilisce che la Palestina è uno Stato…Domani i palestinesi si sveglieranno e si accorgeranno che poco nella loro vita è cambiato. Gli Stati Uniti sono contrari a ogni azione unilaterale, la questione dello Stato palestinese si può risolvere solo attraverso cruciali, spesso dolorosi, negoziati tra le parti».
La Rice ha utilizzato toni più determinati del solito, ma il tabellone elettronico, che ha illustrato la scelta dei Paesi membri, è stato impietoso nel mostrare l’isolamento della posizione degli Usa e di Israele. Due puntini rossi accanto ai loro nomi, che si vanno ad aggiungere a quelli di soli altre sette Paesi, tra cui Canada, Repubblica Ceca e Panama . Nove “no” contro i 138 “sì” e i 41 astenuti.
Appoggiando la richiesta di diventare «stato osservatore non membro, la comunità internazionale chiude un occhio agli accordi di pace», ha detto l’ambasciatore israeliano, Ron Prosor. «Non ci sono scorciatoie, né soluzioni istantanee». «Fino a quando Abu Mazen preferirà andare a New York invece che a Gerusalemme», ha aggiunto «la pace sarà lontana». Più duro il premier Benjamin Netanyahu, il quale ha definito il discorso di Abu Mazen «ostile e velenoso» e ha sostenuto che la decisione dell’Assemblea «non ha avvicinato la costituzione di uno Stato della Palestina, anzi l’ha allontanata».
L’approvazione non era mai stata messa in discussione. La risoluzione per passare aveva bisogno della maggioranza semplice (la metà più uno) e quindi di 97 sì. Nei giorni scorsi a New York, nei corridoi del Palazzo di Vetro, visto il risultato scontato, la partita diplomatica tra i due fronti si è giocata tutta sul tentativo di sgonfiare o rafforzare il consenso. Israele sperava in meno di 115 voti, L’Autorità Palestinese in più di 130. Dall’Europa, un po’ a sorpresa è arrivato il sì dell’Italia, nei giorni prima anche quello di Francia e Spagna, mentre Germania e Gran Bretagna hanno preferito astenersi.
Subito dopo il voto, la delegazione palestinese si è avvolta nella sua bandiera, Abu Mazen ha raccolto silenzioso gli applausi dell’Assemblea Generale. Il riconoscimento della comunità internazionale era proprio quello che cercava visto il calo di popolarità in seguito al recente conflitto a Gaza, il quale ha favorito l’altra anima politica palestinese, Hamas. Proprio alcuni dirigenti del movimento islamico, dopo l’appoggio di Khaled Meshaal, uno dei leader in esilio al Cairo, nonostante fossero da sempre contrari alla richiesta di riconoscimento formulata da Abu Mazen, si sono felicitati per la vittoria della Palestina all’Onu. Non sono scesi in piazza a festeggiare, ma hanno concesso l’autorizzazione ad al Fatah, il movimento del presidente dell’Anp, di organizzare una manifestazione nel centro di Gaza.
Come detto, in sé la “promozione” a stato osservatore non membro cambia di poco la vita dei palestinesi, la vera partita però inizia oggi, nel day-after. Gli Stati Uniti e Israele avevano minacciato ritorsioni e sanzioni se la Palestina avesse presentato una risoluzione all’Assemblea Generale, ma in realtà gli analisti americani concordano nel sostenere che tutto dipenderà da come Abu Mazen deciderà di gestire questa vittoria.
Anche se sembra improbabile a breve, potrebbe chiedere al Tribunale Penale Internazionale di indagare su eventuali crimini commessi dalla leadership israeliana nei territori occupati (la più grande preoccupazione del fronte del no, ma anche di quello degli astenuti), oppure, come più volte ribadito dalla delegazione palestinese, rendersi disponibile a trattare con Israele per negoziare la pace. Prima però potrebbe avvenire un’altra storica riconciliazione, quella tra al Fatah, che governa la Cisgiordania, e Hamas, leader a Gaza, per arrivare uniti al tavolo delle trattative.