I giovani dell’esercito israeliano combattono anche con Twitter

I giovani dell’esercito israeliano combattono anche con Twitter

Dopo la prima notte di attacchi aerei israeliani su Gaza, ormai quasi una settimana fa, ha cominciato a circolare su Twitter la fotografia di un bambino di 11 mesi, che sorrideva, ucciso da un missile Israeliano che ha colpito la sua casa. Nel giro di poche ore, Avital Leibovich, una delle portavoci dell’Idf (Israel Defence Forces) ha postato, in segno di risposta, l’immagine di un altro bambino (stavolta una bimba israeliana) ferita da un razzo di Hamas nella città meridionale di Kiryat Malachi. Non è certo questo il primo caso di guerra virtuale che il governo israeliano e Hamas conducono sulle reti dei social media (basti pensare che le ostilità, nel mondo reale, sono state annunciate il 14 novembre dall’Idf in un tweet in cui si declamava la morte del leader di Hamas, Ahmed Jabari) ma si tratta di un’indicazione anticipata di come la vita e la morte siano state ridotte a roba per internet.

Il mondo sa bene che i social media hanno il potere di fomentare e diffondere ovunque movimenti di popolo, da Lower Manhattan alle vie del Cairo. Ma l’operazione Pillar of Defense può diventare la prima guerra in cui anche l’insulto virtuale tra nemici può trovare spazio. «Consigliamo che nessun agente di Hamas, che sia di basso livello o con ruolo dirigenziale, si faccia vedere in questa terra nei prossimi giorni», diceva un tweet dall’account ufficiale del IDFspokeperson mercoledì scorso. «@IDFspokeperson, le nostre mani benedette raggiungeranno i vostri capi ovunque essi siano (Avete aperto su di voi le porte dell’Inferno)», è stata la risposta da @AlQassamBrigade.

Non è chiaro chi ci sia dietro l’account delle Brigate Qassam. In Israele, le operazioni sui social media dell’Idf sono seguite da un immigrato belga di 26 anni. Si chiama Sacha Dratwa. Negli ultimi due anni ha preso in mano quella che, quando è nata durante l’Operazione Piombo Fuso, era la semplice iniziativa di rendere più efficiente la presenza dell’Idf su YouTube e Facebook, e l’ha fatta diventare la più grande arma visibile a livello globale dell’esercito israeliano. Negli ultimi cinque anni, il desk media si è allargato in nuovi territori: commissionando contenuti pensati per la condivisione virale, oppure creando giochi (sulla falsariga di Foursquare) per il blog dell’Idf, che regala distintivi ai visitatori più assidui.

L’Idf posta anche video degli attacchi dei suoi droni, a cominciare da quello che mostra l’uccisione di Jabari; immagini di israeliani che cercano rifugio durante gli attacchi palestinesi e filmati di unità di Iron Dome [il sistema anti-missili israeliano] che bloccano con successo i razzi lanciati da Gaza.

«Il governo deve ancora creare gli slogan, stabilire cosa vogliamo ottenere, e poi ci rivolgeremo ai bambini: loro lo tradurranno nel nuovo linguaggio dei social», ha detto Daniel Seaman, vice direttore generale del Ministro per l’Informazione Pubblica e la Diaspora. Guidava l’ufficio stampa del governo durante l’operazione Piombo Fuso. «Per me, questa è magia». «Vogliamo spiegare alle persone quello che succede in Israele, tutto qui», spiega Dratwa in una breve intervista telefonica. «Crediamo che le persone possano capire il linguaggio di Facebook e di Twitter».

Per Israele, portare la guerra su Twitter, Facebook, Instagram e anche Pinterest è la naturale conseguenza delle iniziative di diplomazia pubblica del governo israeliano. Si va dall’organizzazione di seminari per esercitare gli abitanti a difendere la loro causa sulle reti dei social, alla sottoscrizione di campagne per migliorare l’immagine dei coloni nel mondo del web.

L’obiettivo, come ha spiegato Dratwa, è duplice: da un lato, trasmettere la narrazione di Israele in tempo reale, così la gente può sapere già su twitter degli allarmi rossi a Tel Aviv e dei razzi lanciati su Gaza; dall’altro, tagliare fuori l’intermediario dei “vecchi media”, per comunicare direttamente agli attivisti pro-Israele. «Noi cerchiamo di essere veloci e di avere informazioni prima dei vecchi media», spiega Dratwa, «e crediamo che la gente dai social faccia proprio quello, cioè cerchi informazioni. Non vogliamo che arrivino loro da altre fonti: siamo noi gli unici sulla scena, i vecchi media non sono sulla scena come noi».

Non è del tutto chiaro quale impatto concreto stiano avendo, sull’opinione pubblica, le battaglie twitter dell’Idf . Ai giornalisti stranieri è stato permesso di entrare a Gaza mentre era in corso l’operazione Colonna di difesa – un cambiamento rispetto alla operazione Piombo Fuso, durante la quale i giornalisti stranieri erano stati tenuti fuori – cosa che ha provocato un flusso continuo di riprese e immagini. Ma l’Idf si riferisce anche ai 185.150 follower su Twitter che hanno seguito le sue immagini, video e aggiornamenti, che comprendono notizie dal fronte e continui reminder sulle forniture di cibo e di cure mediche ai civili di Gaza fatte da Israele. «L’idea è di formare una base molto forte», dice Garth Jowett, professore specializzato in propaganda e media all’Università di Houston. «Ma non è per niente facile cambiare le menti delle persone con la propaganda».

La nuova presenza mediatica dell’Idf è stata, in origine, il parto di Aliza Landes (figlia americana dello storico Richard Landes) Landes aveva anche lei 25 anni quando, nell’inverno 2008-2009, da ufficiale dell’ufficio stampa nord americano dell’Idf, aveva pilotato le prime scorribande nella guerra virtuale in occasione dell’operazione Piombo Fuso. «In Israele, Facebook era appena sbarcato ed era considerato un giocattolo per bambini. Lo stesso per YouTube. Non si pensava che potessero diventare uno strumento di diffusione molto efficace: era visto solo come un mezzo per perdere tempo in ufficio».

Landes aveva già scritto memorie ufficiali per smuovere i suoi superiori: parlava delle possibilità di una strategia mediatica più aggressiva, ma non le fu prestata attenzione fino a quando alcuni video da lei postati su YouTube avevano cominciato a accumulare una serie impressionante di visualizzazioni. All’inizio, come racconta, usava YouTube per fornire file ai giornalisti stranieri che non potendo entrare a Gaza, erano obbligati a basarsi sui filmati dell’Idf. «Non era materiale per il pubblico», dice. Poi iniziò a postare aggiornamenti e statistiche sui razzi sparati su un blog dell’Idf. Quando Piombo Fuso terminò, in gennaio, la cosa era cresciuta tanto da commissionare video originali dal dipartimento di film militari. «Era come se il mio progetto, appena nato, fosse già in cima a tutto il resto delle cose che dovevo fare».

Nell’agosto 2009 Landes riuscì a convincere i suoi superiori a darle un budget dedicato per un’operazione sui nuovi media. Il primo test lo fecero a gennaio 2010, non per una guerra ma dopo il grande terremoto ad Haiti, quando Israele inviò staff medico d’emergenza ai Caraibi. «Ci mandavano richieste di aiuto via twitter», diceva. «Non era solo uno strumento per Pr, ma anche un sistema per dare soccorso». Quell’estate Landes fu responsabile per aver emesso il video sul raid del commando sulla Mavi Marmara. Convinse i suoi superiori a darle un accesso ai video quasi in tempo reale.

Quando poi Landes lasciò, più tardi nel 2010, aveva sotto di sé uno staff di dieci persone completamente dedicate a immettere ia rete materiale curato, secondo decisioni prese di concerto con altri ministri del governo – alcuni video, soprattutto quelli dell’episodio della Mavi Marmara – hanno finito col dare materiale ai critici di Israele. «È importante mantenere il confronto», dice Landes. «Se tu dici: questo lo taglio del tutto, non fai nessun favore a te stesso, anzi, in realtà ti stai facendo un disservizio».

E se la campagna mediatica dell’Idf ha attirato critiche(c’è chi ritiene che renda ridicolo il tema della guerra e le sue conseguenze) resta improbabile che sia l’ultima. «Siamo in un periodo in cui queste cose costituiscono non solo il modo in cui avvengono le comunicazioni oggi, ma anche quelle per cui il pubblico è plasmato», dice Sree Sreenivasan, professore di social media alla Scuola di Giornalismo della Columbia. «Non ha senso dire che non lo dovrebbero fare solo perché nessuno li ascolterebbe: entrambe le parti faranno tutto ciò che va nei loro interesse», e «l’uso dei social media ne è un esempio».  

*pubblicato su Tablet, il 20-11-2012 con il titolo The ‘Kids’ Behind IDF’s Media

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