«Solo quelli che sono così folli da pensare di cambiare il mondo, lo cambiano davvero». Albert Einsten aveva ragione. Se guardiamo il corso della storia sono tante le persone che sono riuscite davvero a cambiare le cose. A volte grazie a personaggi fuori dal comune, altre per merito di persone semplici, che nel loro piccolo con le loro azioni hanno che hanno fatto la differenza. «Perché nella vita ci vuole determinazione. Bisogna credere fino in fondo in quello che facciamo e tirare fuori la grinta, la voglia matta di fare, di arrivare. Anche a costo di affrontare salite durissime e prendere le batoste. Ma bisogna osare ed essere il motore del cambiamento».
E questo lo dice una donna che le regole del gioco le ha cambiate davvero. Non a caso Ilaria Capua, veterinaria e virologa di fama internazionale, nel 2008 è stata nominata “Revolutionary Mind”, mente rivoluzionaria, dalla rivista americana Seed per aver contribuito alla promozione della condivisione dei dati scientifici. Per Scientific American è una dei 50 scienziati più influenti al mondo e giusto l’altro anno ha ricevuto il Penn Vet World Leadership Award dall’Università della Pennsylvania (Usa) «per aver modificato in maniera significativa l’immagine e la pratica della professione e influenzato la vita e la carriera di altre persone». Una specie di premio Nobel della medicina veterinaria, il massimo riconoscimento attribuibile in questo campo. Per la prima volta non assegnato a un over 60. Per la prima volta una donna. Italiana.
Alla fine degli anni Novanta Ilaria Capua arriva in Veneto, all’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie (Izsve), che si occupa della diagnosi delle malattie virali degli animali, dove si dedica subito all’influenza aviaria, che in quegli anni fa la sua prima comparsa. Il gruppo di ricerca è piccolo, appena otto persone, ma nel giro di pochi anni si ingrandisce e diventa un punto di riferimento internazionale nella ricerca sulla malattie virali che gli animali possono passare all’uomo. Nel 2001 diviene ufficialmente Centro di referenza per l’influenza aviaria e la malattia di Newcastle, per l’Organizzazione delle nazioni unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) e l’Organizzazione mondiale della sanità animale (Oie) e nel 2008 Centro di referenza nazionale per le malattie infettive all’interfaccia uomo-animale dal ministero della Salute.
«Vi ricordate l’influenza aviaria?» esordisce la Capua a Se stasera sono qui, trasmissione de La7. «Non è stata una bufala, era una malattia terribile che ha ucciso milioni di animali in tutto il mondo e a un certo punto ha fatto il salto di specie, passando anche agli esseri umani. Era in grado di uccidere il 50% delle persone che incontrava. Nel 2006 dall’estremo oriente era arrivata in Europa e in un’Africa già flagellata da tanti altri problemi. Il mio laboratorio che nel frattempo era cresciuto è stato il primo ad isolare questo virus, e tutto il mondo stava lì ad aspettare la nostra mossa. L’Organizzazione mondiale di sanità (Oms) a un certo punto mi contattò perché voleva che depositassimo la sequenza del virus in un database privato a cui solo 15 laboratori, fra i più importanti al mondo, avevano l’accesso».
«Potevo entrare a fare parte de l’élite. Aspettare e pubblicare su riviste prestigiose, di fama internazionale» continua la scienziata. «Ma era una situazione di emergenza e poiché i virus non aspettano, decisi di andare contro la prassi, e pubblicai tutto su un database aperto, GenBank, a cui qualsiasi laboratorio poteva accedere liberamente. Questo significava estendere il lavoro a molti più gruppi di ricerca e in un momento simile mi sembrava la cosa più ovvia da fare. In un settimana la sequenza fu scaricata mille volte».
«D’altra parte io sono un dipendente pubblico, pagato con i soldi dei contribuenti ed è giusto che la priorità sia lavorare per la salute di tutti», conclude la Capua. «Finimmo su tutti i giornali internazionali e da lì partì un dibattito sulla trasparenza dei dati. È stato un rischio e un periodo difficile, ma è servito a cambiare le politiche sanitarie a livello internazionale. L’altro anno, infatti, l’Oms ha passato una risoluzione che promuove la trasparenza dei dati e la ricerca interdisciplinare. Con il risultato di ottimizzare le strategie per affrontare minacce globali come le pandemie. È stato un grosso input per la scienza open source, e il cambiamento è partito proprio dall’Italia».
Ilaria Capua è la scienziata che il mondo ci invidia. Appassionata, combattente, e brava comunicatrice. Con una formazione completamente made in Italy, ma dovuta anche ai numerosi viaggi intorno al mondo. È la dimostrazione vivente che la buona ricerca in Italia si può fare. E ora anche lei potrebbe finire nella, già troppo lunga, lista dei cervelli italiani in fuga. Dei nostri talenti costretti a fuggire all’estero per poter lavorare. Certo la notizia non è ufficiale, ma da alcuni giorni corre in rete la possibilità che questa ipotesi possa diventare realtà se la situazione non dovesse sbloccarsi. E Ilaria per il momento non vuole rilasciare interviste per non alimentare ulteriori polemiche.
Da oltre due anni, la virologa padovana, aveva chiesto di potenziare la sua attività di ricerca con nuovi laboratori, e l’accordo sembrava essere arrivato. Il trasferimento del suo gruppo di ricerca, composto oggi da una settantina di persone, alla Torre della Ricerca della Città della Speranza, che sta sorgendo nella zona industriale di Padova, sembrava praticamente certo. Qualche giorno fa però, è arrivato il “no” del direttore generale dell’Izsve, Igino Andrighetto, e il rischio è che davvero il nostro Paese si lasci scappare l’ennesima eccellenza.
La Capua, che al momento copre la carica di direttrice del dipartimento di Scienze biomediche comparate dell’Izsve,ha partecipato alla Maratona di interventi (“Non sprechiamo i nostri talenti!”), organizzata in suo sostegno e dei ricercatori italiani, da Nordesteuropa, a Palazzo Moroni a Padova.
«Parliamo di aviaria, influenza suina, Mucca pazza, non malattie banali», spiega a Linkiesta un giovane ricercatore veneto che preferisce restare anonimo. «Lo scandalo è che in laboratori che dovrebbero essere all’avanguardia, “fiore all’occhiello della ricerca”, cui pervengono richieste per analisi da mezza Europa, le condizioni siano pietose. E i dipendenti lavorano in spazi ristretti in condizioni di rischio per la propria salute. La struttura di Legnaro, infatti, è obsoleta e poco sicura, il personale è costretto a lavorare in stabili fatiscenti e spazi ristretti, e tale situazione non può che incidere negativamente sull’operato del gruppo di ricerca».
«Il Veneto – ha dichiarato Zaia a Padovaoggi – vuole Ilaria Capua alla Torre della Ricerca. Stiamo parlando di una scienziata che, con la sua scelta di non emigrare all’estero, è anche un segnale forte per tutti quei giovani che cercano di emergere nei più svariati campi della ricerca. Parliamo tanto della necessità di arginare la fuga di cervelli e poi ci si trova di fronte a situazioni come questa. È inaccettabile e chiediamo che l’Izs ritorni su questa assurda decisione». La Regione già dal 2010 ha stanziato 3 milioni da destinare al gruppo guidato dalla Capua, per il trasferimento dei laboratori, ed ora è stanca di aspettare congelando i finanziamenti. Mentre altri istituti attendono di insediarsi nella Torre, nel caso in cui i locali rimanessero liberi.
Un duello che va avanti da oltre due anni e mezzo, dietro a politiche e losche logiche di finanziamento, che infestano anche l’amministrazione delle istituzioni scientifiche. Secondo quanto riportato dal Giornale di Vicenza, tre milioni di euro sarebbero stati stanziati dal ministero (ai tempi del ministro Fazio), per l’Izsve e la struttura della Capua. Ma per essere investiti all’interno dell’istituto stesso, a Legnaro, a detta di Andrighetto. E non in strutture altrui come la Torre.
A rimetterci ancora una volta sono i ricercatori, sfiniti da questa situazione e coinvolti in giochi di potere, in cui non hanno parola. E la ricerca scientifica, che non riesce a essere libera e inevitabilmente ne risente. Il nostro Paese non riesce a valorizzare i talenti. E non c’è da stupirsi se i ricercatori vanno a lavorare oltre confine. La burocrazia, l’inefficienza, le piccole invidie personali sono tutti attori responsabili di questa fuga, della dispersione di intelligenza e competenze a cui l’Italia non sa porre un freno. Fintanto che non metterà al centro di tutto la meritocrazia, e fintanto che le eccellenze non verranno premiate.