Quando la General Motors dice a un candidato alle presidenziali che sta facendo «politiche elettorali al loro peggior grado di cinismo» è un segnale abbastanza chiaro che la campagna ha superato il limite e deve fermarsi. Ma questo non vale per Mitt Romney. Dopo aver trasmesso una pubblicità oltraggiosamente ingannevole contro il bailout alle aziende automobilistiche, ha ignorato le proteste dei produttori e ha continuato per la sua strada, aggiungendoci un carico.
A quanto pare, Romney ha in mente di finire la sua corsa per la Casa Bianca così come l’ha cominciata: con politiche da minimo comune denominatore. Dice qualsiasi cosa gli possa servire per raggiungere il potere e, con noncuranza, inganna gli elettori, che sono invece alla disperata ricerca di chiarezza e verità.
Tutto è cominciato mesi fa, quando Romney ha capito che la sua famosa presa di posizione nel 2008 contro il bailout del governo, molto apprezzato e utile, a General Motors e Chrysler, lo avrebbe danneggiato proprio negli stati di Ohio e Michigan, i più preziosi. A febbraio ha scritto un intervento per il Detroit News, in cui definisce il bailout “capitalismo per amichetti fatto su grande scala”. I sindacati ne hanno tratto benefici, diceva, e Detroit avrebbe fatto molto meglio a rifiutare il denaro federale. (e in questo ignora il fatto, ben documentato, che non ci fossero altri soldi disponibili per i produttori di auto).
Quando si è accorto che la tattica non funzionava, ha cominciato a insistere, nei dibattiti, sul fatto che il suo piano per Detroit non fosse poi così diverso da quello di Obama (a parte per quell’insignificante dettaglio degli 80 miliardi di dollari di investimenti dello stato).
Anche questo, in poco tempo, è stato confutato. E allora Romney, nei raduni della scorsa settimana, ha detto che la Chrysler sta pensando di spostare la sua produzione in Cina. La Chrysler ha risposto bollando le parole di Romney come “pura invenzione”: sta soltanto considerando l’idea di aumentare la propria produzione in Cina, ma per la vendita in Cina, cioè senza toccare un solo posto di lavoro in America.
«Mi sento obbligato a ribadire la nostra posizione: la produzione della Jeep non sarà spostata dagli Stati Uniti alla Cina», ha dichiarato Sergio Marchionne, amministratore delegato della Chrysler. «Le linee di assemblaggio della Jeep resteranno attive negli Stati Uniti e costituiranno la spina dorsale del nostro marchio. È quantomeno scorretto insinuare il contrario». Anzi, verranno creati 1.100 nuovi posti di lavoro a Toledo (in Ohio), per costruire una nuova generazione di Jeep.
La campagna di Romney ha del tutto ignorato la risposta di Chrysler, e ha proseguito con una pubblicità, diventata subito celebre, in cui sostiene che Obama «ha venduto la Chrysler agli italiani, che costruiranno le Jeep in Cina». Nel caso in cui l’implicazione (ingannevole) non fosse chiara abbastanza, la campagna ha continuato trasmettendo in radio un’altra pubblicità, martedì, in cui si dichiarava che «Obama dice di aver salvato l’industria dell’auto, ma per chi? L’Ohio o la Cina?» Cosa è successo, si chiede, «delle promesse fatte agli operai di Toledo e di tutto l’Ohio?»
Quello che è successo è che quelle promesse son state mantenute. Circa 1,5 milioni di persone stanno lavorando, grazie proprio al bailout. E il tasso di disoccupazione dell’Ohio è ben al di sotto della media nazionale. Le vendite americane di General Motors continuano a salire, e proprio questa settimana la Chrysler ha dichiarato che i suoi ricavi netti del terzo quarto sono saliti dell’80 per cento. Sono società che non solo si sono riprese: stanno accelerando.
Quello che Romney non può ammettere è che tutto questo è il risultato diretto degli investimenti governativi che lui avrebbe impedito. È già brutto essersi sbagliato sulla scelta politica, ma c’è bisogno di un candidato particolarmente disonesto per alzare il volume di una bugia e continuare a ripeterla. E lo fa nel tentativo convulso e tardivo di aggrapparsi all’Ohio: Romney sta mostrando una fosca anticipazione del tipo di presidente che sarebbe.
tratto da: Romney versus the automakers, New York Times, 31 – 10 – 2012