La crescita ci rende liberi, la libertà ci fa crescere

La crescita ci rende liberi, la libertà ci fa crescere

Gli economisti sono sempre stati molto bravi a individuare le conseguenze materiali della moderna crescita economica. Ci ha reso più alti: siamo probabilmente più alti sette centimetri rispetto ai nostri antenati preindustriali. Ci ha reso più sani: i bambini oggi hanno un’aspettativa di vita intorno ai settant’anni e non ai venti (più della metà e l’incremento non è direttamente correlato ad una migliore tecnologia medica, in senso stretto). Ci fornisce il tempo libero: le giornate lavorative hanno otto ore (piuttosto che “il lavoro dell’uomo va da sole a sole e il lavoro della donna non finisce mai”) Ci fornisce abbastanza vestiti da non avere freddo, abbastanza riparo da non bagnarsi, e cibo a sufficienza da non essere affamati.

Ci offre divertimenti e distrazioni, in modo che la sera ci sia molto di più da fare che stringersi intorno al fuoco del villaggio e ascoltare ancora una volta quel poeta cieco che dall’altra parte del Mar Egeo racconta la sola lunga storia che conosce, quella su Achille e Agamennone.
Col passare del tempo, quelli che erano lussi diventano prima comodità, e poi necessità, quelli che erano i sogni utopici diventano prima lussi e poi normalità, e ciò che era inimmaginabile anche nella fantasia selvaggia diventa prima sogno utopico e poi lusso.

Gli economisti sono stati meno bravi a individuare le conseguenze morali della crescita economica. Ci sono delle massime occasionali: John Maynard Keynes ha osservato che è meglio per un uomo dominare il proprio conto in banca piuttosto che i propri simili (una società ricca ha una upper class che concentra la sua ricchezza nel potere-sulla-natura, piuttosto che sul suo potere come potere-sulle-persone). 

Adam Smith ha scritto a proposito di come la ricchezza ha reso allettante per l’aristocrazia inglese abbandonare gli eserciti feudali e le guerre private per trasferirsi a Londra per ricoprire cariche in società e a corte. Voltaire (che non posso dire sia stato un economista) ha osservato che le persone che, in altre circostanze avrebbero tentato di uccidersi a vicenda per adorare il dio sbagliato, (o il dio giusto, nel modo sbagliato) erano perfettamente educate e civili quando si incontravano come potenziali partner commerciali alla Borsa di Londra.

Albert Hirschman (che è un economista) ha scritto un piccolo libro splendido The Passions and the Interests sull’ottocentesca idea che la società commerciale è costituita da esseri umani “dolci”: educati, cortesi, e civili, i quali vedono gli altri come potenziali soci in un mercato di scambi reciprocamente vantaggiosi, piuttosto che come membri dello stesso clan da aiutare, membri di clan nemici da uccidere, o estranei da derubare. Ma l’attenzione sulle conseguenze morali della crescita economica è stata, da parte degli economisti, in generale rara.

Benjamin M. Friedman ’66, ’71 Jf, Ph.D. ’71, professore Maier di economia politica, adesso riempie questa lacuna: con una influente argomentazione in base alla quale la società moderna– politicamente e socialmente – è una bicicletta, con una crescita economica che dà lo slancio in avanti che poi continua a fare girare le ruote. Infatti, finché le ruote girano rapidamente, la bicicletta è un veicolo molto stabile. Ma, sostiene Friedman, che quando le ruote si fermano – anche come risultato di una stagnazione economica, piuttosto che di una recessione o di una depressione – la democrazia politica, la libertà individuale, e la tolleranza sociale sono fortemente a rischio, anche nei paesi in cui resta alto il livello assoluto di prosperità materiale.

Si consideri solo uno dei suoi esempi, un calcolo che riprende dal suo collega Alberto Alesina, professore Ropes di economia politica, e altro: alla fine del ventesimo secolo in un paese medio, il reddito reale pro capite è calato dell’1,4% nell’anno in cui si è verificato un colpo di stato militare, è aumentato dell’1,4% nell’anno in cui c’è stato un legittimo trasferimento costituzionale del potere politico, ed cresciuto del 2,7% nell’anno in cui non si è verificato un passaggio significativo del potere politico.

Secondo Friedman, se si desiderano tutte le tipologie di cose positive non economiche come l’aumento di opportunità, la tolleranza, la mobilità economica e sociale, l’equità, e la democrazia, la rapida crescita economica le rende molto, molto più possibili, e la stagnazione economica le rende quasi impossibile da raggiungere e mantenere. Il libro The Moral Consequences of Economic Growth è un piacere da leggere, indaga con cura in profondità i singoli argomenti riuscendo, tuttavia, a spaziare dalle discussioni di ordine politico in Africa alla crescita economica e allo sviluppo, alla crescita e all’uguaglianza, ai pensatori illuministi europei del diciottesimo secolo, alle storie del ventesimo secolo dei maggiori paesi europei, e a una serie di altri soggetti.

Eppure ogni tema, per la tesi centrale del libro è chiaro: i sotto capitoli mostrano in azione i circoli virtuosi (con il quale la crescita economica e il progresso socio-politico e la libertà si rafforzano a vicenda) e i circoli viziosi (con i quali la stagnazione genera violenza e dittatura). Dove la crescita è rapida, il movimento verso la democrazia è più facile e le società diventano più libere e tolleranti. E le società che sono libere e più tolleranti (anche se non necessariamente democratiche) riescono più facilmente a ottenere una rapida crescita economica.

Friedman non ha paura di mostrare a testa alta il maggiore controesempio del ventesimo secolo alla sua tesi: la Grande Depressione negli Stati Uniti. In altre parti del mondo, la catastrofe non offre nessuna sfida al suo punto di vista. Nel 1930, l’aumento della disoccupazione e il calo dei redditi in Giappone certamente hanno avuto un ruolo negli omicidi e nei colpi di stato silenziosi con i quali il paese è passato, nel 1940, da una funzionante monarchia costituzionale con istituzioni rappresentative a una dittatura militare fascista – una dittatura che, si è fissata bene in un pantano di una terra di guerra in Asia come il risultato del suo attacco alla Cina, pensando che fosse una buona idea attaccare, e quindi aggiungere ai suoi nemici, le due superpotenze Gran Bretagna e Stati Uniti.

Nell’Europa occidentale il calcolo è altrettanto semplice: no Grande Depressione, no Hitler. Il libro più triste sulla mia mensola è un volume del 1928 dal titolo “Repubblican Germany: uno studio economico e politico”, la cui tesi è che dopo un decennio di disordini politici post-guerra mondiale, la Germania fosse finalmente diventata una repubblica stabile, legittima, e democratica. E solo il fatto che sia arrivata la Grande Depressione e ha offerto l’occasione a Hitler rende questo sbagliato.

Negli Stati Uniti, tuttavia, le cose erano diverse, e non erano favorevoli all’ampia tesi di Friedman. Gli anni Trenta sono stati un doloroso shock economico in questo paese, ma anche un decennio durante il quale la nostra nazione ha rafforzato il suo impegno in difesa dei valori liberali che rappresentano la parte migliore della sua natura.
Certo, le cose sarebbero andate in un altro modo: si consideri Huey Long in Louisiana, Padre Coughlin sulle onde radio, il trattamento della California nella fase della Depressione ai migranti di altri Stati che solo oggi leggiamo in “The Grapes of Wrath”, e il bianco-caldo odio per Roosevelt come un traditore di classe che mette oggi nell’ombra le acute e sbilanciate critiche a Bush e Clinton. (Fino al giorno della sua morte sei mesi fa, mio nonno novantenne diceva ancora che il Paese era stato fortunato a essere sopravvissuto a Roosevelt.)

Tutti questi esempi ci mostrano i segni di un’America che avrebbe potuto seguire un’altra via negli anni Trenta. Eppure, come scrive Friedman, “l’America durante la Grande Depressione ha rafforzato il suo impegno a rispettare i valori positivi [di apertura, tolleranza e democrazia], e, inoltre, ha fatto in modo che essi durassero a lungo.” Il New Deal era un:

caos di sperimentazione … per mobilitare l’effettiva energia del governo per diffondere opportunità economiche nel modo più ampio possibile – per includere color che la nascita e la marea di eventi, li avevano lasciati fuori dalla distribuzione dei dividendi economici americani. Piuttosto che cercare capri espiatori per escludere … il percorso che l’America seguiva negli anni Trenta era deliberatamente pluralista e inclusivo, cercando più che mai il contributo e la partecipazione delle più diverse unioni di elettori. E lo scopo di tutto questo attivismo politico non ha introdotto la prosperità economica, ma più uguali opportunità economiche.

La linea che uso nelle mie lezioni americane di storia economica inizia dalla suggestione che prima della Grande Depressione, l’America di campagna, della piccola città, e l’urbana (la stragrande maggioranza protestante) classe media – agricoltori, farmacisti, commercianti, e così via – non credeva davvero che potesse avere interessi in comune con i non-bianchi rurali e i non-proprio-bianchi (e ebrei e cattolici) immigrati urbani della classe lavoratrice.

La Grande Depressione aveva impoverito un numero sufficiente di persone che pensavano di avere fatto abbastanza per convincere la classe media che la stessa aveva interessi abbastanza in comune con la classe operaia per spingere per la parità di opportunità per tutti, o almeno per quelle persone che non erano bianche, i protestanti nord-europei. Questa è la mia ipotesi migliore, ma è solo un’ipotesi.

Friedman in realtà non sa perché la Grande Depressione non ha reso l’America meno democratica, meno tollerante e meno un paese libero. Ma non si scusa: conclude il suo capitolo con una citazione del noto economico di Harvard, Alexander Gerschenkron “le ipotesi storiche non sono universali …Non possono essere falsificate da una sola eccezione.”

Friedman non ha scritto la sua versione della storia economica e della filosofia morale, solo per il gusto di antiquati come me che amano leggere di luoghi strani e lontani che sono il nostro passato. Usa i modelli storici per tirare fuori insegnamenti forti e immediati per il presente. Si consideri la Cina. Ci sono alcuni giorni a Washington, in cui si guarda con ansia al futuro quando Cina sarà nemica degli Stati Uniti: credono che si potrà in qualche modo aumentare la nostra “grandezza nazionale” per scatenare una nuova guerra fredda in Asia, anche se contro un nemico più debole rispetto all’Unione Sovietica di Stalin.

Ci sono alcuni nell’ufficio del vicepresidente Cheney che pensano che il commercio con la Cina sia una cattiva idea: crea una lobby pro-Cina che blocca ogni tentativo degli Stati Uniti di rallentare la crescita della Cina e l’acquisizione di tecnologia. Meglio, pensano di cercare di mantenere la Cina povera e “scalza” il più a lungo possibile. Dal punto di vista di Friedman – e dal mio – questo è semplicemente folle. Con ogni probabilità, la Cina tra un secolo sarà una vera e propria superpotenza post-industriale nonostante le politiche degli Stati Uniti.

Vuoi aumentare la possibilità che tale superpotenza possa avere un governo rappresentativo a capo di una società libera e aperta? Bisogna lavorare per massimizzare la crescita economica, dice Friedman. (E io aggiungerei: Migliorerà realmente la sicurezza nazionale degli Stati Uniti se agli scolari in Cina si insegnerà che gli Stati Uniti hanno cercato di tenerli il più povero possibile il più a lungo possibile?)

Infatti, la politica cinese dell’amministrazione Clinton ha fatto tutto il possibile per accelerare la crescita della Cina nella speranza che la rapida crescita economica porterà “l’uovo politico” della democrazia nel nido. Con una crescita rapida, la prospera classe media si avvicinerà alla libertà e all’opportunità, e diventerà una forza molto più potente per la democratizzazione e la libertà personale in Cina rispetto a un battaglione di riflessioni neoconservatrici o a una serie di missili cruise guidati a distanza.

Si consideri il mondo in via di sviluppo nel senso più ampio. Friedman è, come me, un “tesserato” neoliberale. Noi economisti non capiamo molto bene come possa la conoscenza delle moderne tecnologie e delle organizzazioni e delle istituzioni valide diffondersi da regione a regione in tutto il mondo. Sappiamo che si diffonde in modo spaventosamente lento: ci sono ancora tre miliardi di persone in tutto il mondo, che vivono in modo preindustriale (anche se sono al di sopra della soglia di povertà malthusiana in cui viveva la maggior parte dei nostri antenati preindustriali). 

Abbiamo il sospetto che aumentare i contatti – economici, sociali e culturali – è una potente via per trasferire idee e pratiche. Da qui l’imperativo neoliberale: bisogna fare tutto il possibile per massimizzare la crescita economica nel mondo in via di sviluppo, e sperare che la rapida crescita generi come suo treno forti pressioni locali per uno sviluppo sociale, ambientale, culturale e politico che sono necessarie per rendere le forme non economiche di progresso stabili e di lunga durata.

Vi è, però, una critica alla visione neoliberale che sostiene che più alti redditi materiali non possono essere la cura per la povertà, la povertà è anche una mancanza di voce nella società, la mancanza di sicurezza nella propria posizione, e una mancanza di rispetto. Friedman è d’accordo con tutto questo. Ma aggiunge che un più veloce progresso è il modo migliore per generare pressioni per produrre voce, sicurezza e rispetto.

Da qui l’imperativo neoliberale: ridurre gli ostacoli per gli scambi e i contatti, ridurre gli ostacoli di ogni tipo; ridurre gli ostacoli in attesa che una più rapida crescita economica possa generare pressioni compensative che annullino e curino gli effetti collaterali di una crescita rapida.  La lettura di Friedman sulle conseguenze morali della crescita economica fornisce un potente supporto a questo imperativo neoliberale. (Un supporto così potente, infatti, che Joseph E. Stiglitz, il nostro amico non-liberale vincitore del premio Nobel, fa un attacco a The Moral Consequences of Economic Growth nel numero di novembre-dicembre 2005 di Foreign Affairs.)

Consideriamo gli Stati Uniti oggi. Adesso per una generazione, i benefici della crescita economica si sono concentrati nelle zone della società americana che sono pari o vicino alla parte superiore. Nella misura in cui, la classe operaia americana è più ricca oggi (al netto dell’inflazione) rispetto a quanto lo erano i lavoratori americani all’inizio degli anni Settanta. Questo perché le famiglie di oggi hanno meno figli e guadagna denaro una percentuale più alta dei loro membri. Oggi la classe media americana vive meglio rispetto a come viveva la classe media nel 1970 (e una parte dei bambini che negli anni settanta lavorava oggi fa parte della classe media). Ma oggi il divario tra la classe media americana e la classe superiore è molto ampio, a livelli che non si percepivano da prima del crollo della borsa del 1929.

Friedman è davvero preoccupato, poiché la prosperità distribuita in modo diseguale non è davvero la prosperità di tutti. Durante la precedente generazione abbiamo visto il governo degli Stati Uniti porre il pollice da una parte, sul piatto della bilancia, per rendere in America la distribuzione del reddito e della ricchezza più equa. Questo è stato fatto per motivi di efficienza economica: il ritiro delle ombrelli regolatori ha permesso ad alcuni sindacati di trasformare posti di lavoro operai in occupazioni con stipendi da classe media, o la riduzione delle aliquote fiscali, eliminando le scappatoie.

Qualcos’altro, invece, è stato fatto per ragioni di purezza morale: sostituire l’idea che crescere i figli per una madre single è un compito sociale importante che merita sostegno, con l’idea che le madri single dovrebbero lavorare. Per altri è semplicemente una nuda presa di ricchezza da parte del potere politico. Quali potranno essere le conseguenze morali della prosperità distribuita in modo diseguale?

La paura di Friedman, forse per una buona ragione, è che saranno simili alle conseguenze della stagnazione economica. Le persone che sentono che non stanno vivendo meglio, o non molto meglio, rispetto ai loro genitori, cercheranno dei nemici: gli scrittori di Hollywood, gli stranieri, persone dalla morale “libera” e laureati di Harvard. E l’America potrà diventare una società meno libera e meno democratica. L’argomento segue le linee della tesi di Thomas Frank in “What the Matter with Kansas?”

Quelli per cui l’economia di mercato americano non sta fornendo una crescente prosperità non arrivano alla risposta giusta: politiche destinate a rafforzare la rete di sicurezza, garantire la sicurezza con un’assicurazione sociale, e potenziare le opportunità con una migliore educazione. Invece di giungere alle risposte sbagliate: chiudere la società e denunciare i nemici-anti-Hollywood come la democrazia sociale degli sciocchi, si potrebbe dire.

Io sono più ottimista. Questo non vuol dire che non sono d’accordo con il programma politico dell’America di oggi che viene fuori dal libro di Friedman: le idee pro-crescita, pro-opportunità, pro-polizze assicurative sociali dell’attuale Partito nazionale democratico sono come il latte materno per me. Ma non credo che abbiamo davanti la generazione di stagnazione dei lavoratori e delle classi medie che teme Friedman. Sì, la generazione passata è stata un disastro distributivo per l’America. Sì, a un certo punto in futuro l’outsourcing dei posti di lavoro, reso possibile dalle moderne telecomunicazioni e tecnologie informatiche, produrrà enormi cambiamenti strutturali nell’economia americana. Ma la popolazione degli Stati Uniti sta lentamente crescendo.

L’opportunità degli Stati Uniti come luogo in cui collocare l’attività economica è in rapida crescita: il motore alla base del progresso tecnologico gira più veloce di quanto non l’abbia fatto nella generazione precedente. Prevedo che l’aumento dei redditi dei lavoratori e della classe media in America durante la prossima generazione causerà quello che con le parole di Friedman è definito un cerchio virtuoso e non vizioso.

Articolo originariamente pubblicato sull’Harvard Magazine del gennaio/febbraio 2006

* J. Bradford DeLong è professore di economia all’University of California, Berkeley.

(traduzione a cura di Stefania Saltalamacchia)