Italia terra di santi, poeti, navigatori… E minoranze, che hanno pensato e realizzato un modo diverso di vivere la religione, la scienza, l’economia, la politica, le relazioni sociali: a tal punto, a giudizio di chi scrive, che l’affermazione maggioritaria delle loro tesi ci avrebbe resi una nazione compiutamente moderna e civile. Ovvero, quel Paese normale di cui, spesso (e correttamente) si sente lamentare la mancanza dalle nostre parti, e che da qualche tempo a questa parte occupa una porzione significativa del dibattito politico e culturale. Come insegnano i manuali di metodologia storica e delle scienze sociali, si deve, naturalmente, partire dalle definizioni.
E, dunque, che cos’è una minoranza? Un gruppo articolato e composito di individui uniti da un’identità culturale comune, che può esprimere la volontà di operare in funzione di un progetto di ordinamento sociale alternativo a quello dominante o prevalente. Questa è una delle diverse possibili accezioni di minoranza contemplate dalle social sciences, ed è quella che farà da filo rosso delle narrazioni che seguono. L’abbiamo prescelta perché la lettura che questo volume propone individua nell’impegno politico-civile e culturale di alcuni soggetti collettivi della storia italiana una serie di disegni di riforma della società che avrebbero consentito, qualora vittoriosi, di modernizzare con forza il Paese, allineandolo alle esperienze dell’Occidente più avanzato.
Con modernizzazione intendiamo la costruzione di assetti sociali e contesti culturali riconducibili alla nozione popperiana di open society, al criterio della libertà di coscienza e di scelta (che nella contemporaneità si traduce nel liberalismo dei diritti civili), alla riduzione delle disuguaglianze e all’ampliamento dei settori centrali della società (anche nei termini della fluidità della mobilità sociale, così carente in Italia), alla circolazione delle idee e all’affrancamento dai dogmatismi dei pensieri unici di vario orientamento, al ricambio delle élites dirigenti.Da questo punto di vista, ‘minoranza’ ed ‘élite’ valgono, il più delle volte, come sinonimi.
La storia, è inutile nascondersi dietro un dito o negare l’evidenza – come si ostina a fare, o a fingere di fare, una certa sinistra radicaleggiante – pullula di élites, siano esse consapevoli oppure no. Élites che è dato ritrovare anche nelle circostanze e nei frangenti politici più (apparentemente) insospettabili. A questa categoria, ad esempio, apparteneva il partito bolscevico, avanguardia del proletariato, che si fece protagonista della rivoluzione del 1917; lo stesso dicasi per le dirigenze dei vari partiti comunisti oppure per le cosiddette aristocrazie operaie all’interno dei movimenti sindacali del XIX e del XX secolo. Esistono élites ovunque si diano una società politica e una società civile.
Il punto è un altro, e rimanda al ruolo che esse svolgono all’interno della dinamica sociale e culturale. E, dunque, ci sono, duramente in lotta tra loro, élites positive portatrici di visioni di progresso ed élites regressive, garanti di equilibri di potere di lunga durata; sono queste ultime ad avere forgiato la mentalità e molte delle strutture di questo Paese nei termini di un Ancien régime che, senza soluzione di continuità, ha attraversato molti secoli, e tuttora dispiega i suoi effetti. Questa interpretazione distingue, così, tra un élitismo opportuno e vantaggioso per la comunità e il sistema-Paese, e un elitarismo reazionario che mira a impedire progresso collettivo e promozione sociale, bloccando qualsiasi ricambio negli ambiti di governo della società.
Quante sono le minoranze? Almeno quante le maggioranze, ma, in genere, molte di più. Percorse, il più delle volte, da progetti che le accomunano; la ragione per la quale abbiamo proceduto, anche forzando un po’ (com’è nella natura dei saggi che intendono provocare il lettore), a ricomprendere minoranze non perfettamente assimilabili sotto un profilo storiografico, riconducendole alla stessa famiglia di opinioni. E, soprattutto, giustapponendole all’interno della categoria comune di modernizzazione – declinata nei termini precedentemente illustrati – lungo i secoli della storia dell’Italia moderna e contemporanea.
Questo è un libro scritto da due persone intimamente e profondamente italiane, che non vuole ingrossare il già ridondante arsenale censorio dei facili denigratori di questo Paese. Proprio per questo riteniamo che debbano essere raccontati altri modi di essere italiani, altrettanto, se non (come pensiamo) ancora più forti di quelli che vanno per la maggiore e, sfortunatamente, si nutrono anche di tanti stereotipi e luoghi comuni. E, difatti, esistono alcuni “generi” e “categorie”, per così dire, di italiani che ci fanno sentire un po’ meno soli rispetto agli altri europei e ai cittadini delle nazioni più civili e rispettate.
Noi, dunque, non siamo antitaliani, idem sentire cultural-antropologico che vanta, in termini assolutamente bipartisan (e, anzi, molto oltre i confini dei clivages politici), una serie di classici, spesso dalla scrittura fulminante, da Leo Longanesi a Ennio Flaiano, da Pier Paolo Pasolini a Indro Montanelli e Giorgio Bocca. Non lo siamo perché riteniamo che questo Paese possa e debba essere cambiato in meglio, e che la speranza sia (o, quanto meno, debba essere) davvero e sempre l’ultima a morire. E pensiamo che il patrimonio di intuizioni, visioni, idee per modificarlo in termini positivi (ovvero, per riformarlo, restituendo a questa parola il giusto significato usurpato da legioni di controriformisti di epoche diverse) esista, e possa essere significativamente ritrovato già nelle elaborazioni e nelle azioni delle minoranze che affollano queste pagine, senza avere, malauguratamente, popolato con analoga intensità le cronache e le vicende della nostra penisola.
Sono minoranze che hanno lasciato orme fondamentali, che vale la pena riportare alla luce sotto il giusto angolo visuale, valorizzandole appieno. Perché, ne siamo ben consapevoli, e lungi da noi la benché minima volontà di peccare di hybris, intere biblioteche sono state scritte sulle vicende di ciascuno dei gruppi qui raccontati, ma, giustappunto, è la cifra ermeneutica a risultare differente. La nostra operazione, augurandoci che si possa considerare almeno in parte profittevole, è quella non di aggiungere alcunché alla rigorosa ricerca storiografica finora svolta, ma di riscoprire le energie fondative di quella che sarebbe potuta essere un’altra Italia.
Un’Italia di eccezionale qualità, ma incompiuta, perché non vi è dubbio che la vittoria non abbia arriso alle forze che cercavano di generarla. Anzi, queste ultime, le minoranze descritte nelle pagine che seguono – e certamente tante altre che vi sono assenti per mere ragioni di spazio –, non soltanto hanno assistito in vita alla dissoluzione dei loro progetti, ma sono state anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae, sottratte al patrimonio condiviso dell’identità italiana contemporanea. In controluce, questo libro può anche essere letto come un saggio sulla lotta politica e culturale nel nostro paese, sui modi con cui è stata condotta e sui risultati cui ha portato.
Non è la nostra, beninteso, un’apologia della sconfitta. Lo sconfittismo rientra precisamente nel novero di quegli atteggiamenti estetizzanti che riteniamo sterili, oltre che assai pericolosi. Al medesimo tempo, non rientriamo nel novero di coloro che ritengono la storia politica leggibile, in maniera semplicistica o nostalgica, come una sequela di occasioni perdute o mancate, e riteniamo vadano adeguatamente considerati i rapporti di forza e tenute nel debito conto le impossibilità. E, così, la nostra vuole essere una constatazione, quanto più realistica possibile, delle tante, troppe battute d’arresto subite dal progresso civile in Italia e dalle minoranze che ne sono state interpreti.
All’alba dell’età moderna l’Italia era, come noto, una realtà (o un insieme di realtà) all’avanguardia sotto molti punti di vista, da quello amministrativo a quello più generalmente culturale. In buona sostanza, era alla testa di parecchi dei processi di modernizzazione del Vecchio continente. L’Umanesimo e il Rinascimento, tuttavia, rappresentarono il canto del cigno di una straordinaria stagione di espansione e rinnovamento che durava da qualche secolo. Da allora non si uscì più a riveder le stelle. Il processo di decadenza e, quindi, di stagnazione complessiva divenne una sorta di costante nella storia della penisola dal XVI secolo circa, con tempi differenziati in ciascun ambito della vita sociale. E viziò a tal punto gli anni e le vicende a venire da produrre quell’anomalia italiana che ci trasciniamo come un fardello secolare.
Un’eredità pesantissima, che ci impedisce di essere quel “Paese normale”, frutto di una rivoluzione liberale, che è la condizione consueta del resto dell’Occidente. La cronaca di questi ultimissimi decenni e, in particolare, del cosiddetto ventennio berlusconiano, fino ai balletti dello spread, può venir letta, a nostro parere, come il precipitato di una vicenda intessuta di permanenze, residualità, atavismi sempre attivi. E la loro origine va per l’appunto rintracciata, a parer nostro, nella lunga durata conservatrice e nelle spinte antimoderniste impresse alla storia nazionale dalle élites “maggioritarie” che l’hanno orientata. E che hanno costruito quel ponte che, quasi senza soluzione di continuità, conduce dall’Antico regime premoderno a quello postmoderno nel pieno del suo splendore fino all’attuale congiuntura di (temporaneo?) ritiro della politique politicienne e di governo dei tecnici.
Unici contrappunti a questa neverending story quelle élites “minoritarie” che continuarono, talvolta anche all’elevatissimo prezzo dell’emarginazione, se non direttamente della vita, a promuovere progetti alternativi di società ed economia e un’idea di progresso e modernità.