La globalizzazione non coinvolge la mente umana. Si possono globalizzare i mercati e le industrie, ma (per fortuna, è il caso di dire) non le idee. In caso contrario, infatti, non si spiegherebbe perché negli Stati Uniti e in Italia le valutazioni sull’operato dell’ad Fiat Sergio Marchionne sono di segno diametralmente opposto. Negli Usa, “Serghio” è una specie di angelo salvatore che ha saputo tirar fuori l’agonizzante Chrysler dalle secche di un fallimento quasi certo, salvaguardando così migliaia di posti di lavoro. Al di qua dell’Atlantico, invece, Marchionne è per molti il diavolo sterminatore che sta affossando la Fiat dimezzando la produzione degli stabilimenti italiani, che ha chiuso quello di Termini Imerese, che ha promesso un piano Fabbrica Italia da 20 miliardi di euro per poi rimangiarselo e, infine, che intende beffare la magistratura licenziando 19 lavoratori di Pomigliano d’Arco dopo che il giudice del lavoro gli ha imposto di riprendersene altrettanti sindacalmente discriminati.
In realtà hanno ragione un po’ tutti, e la mancata globalizzazione delle menti e delle idee cui si accennava permette di sostenere entrambe le tesi semplicemente perché negli States poco arriva e poco importa di quanto accade agli operai Fiat italiani in pericolo, mentre in Italia importa ancora meno di quelli americani e canadesi della Chrysler che invece sembrano aver davanti a sé un futuro più roseo. Tra le due anime dell’avventura Fiat-Chrysler, insomma, c’è di mezzo un intero oceano che annacqua i fatti, distorce le prospettive e diversifica i giudizi. Tuttavia, forse perché impegnati a decidere se Marchionne sia più angelo o più diavolo, qui da noi si è persa di vista una realtà difficile da smentire: la storia Fiat degli ultimi 25 anni, e quindi al di là dell’operato dell’uomo col maglione che la guida solo dal 2004, è una storia fatta più di sconfitte e ripieghi che di successi e avanzate.
Dal punto di vista industriale e degli stabilimenti dell’auto, per esempio, il progressivo declino automobilistico di Fiat appare nettissimo. Nel 1968 il Lingotto s’impadronisce dell’Autobianchi, il cui stabilimento di Desio resterà in vita fino al 1992, quando l’ultimo modello prodotto, la Y10, verrà affidato a quello Alfa Romeo di Arese, che continuerà a fabbricarla con il marchio Lancia. Presto l’Autobianchi scompare con tutto lo stabilimento e nel 1990 è la volta dell’Automobili Innocenti, ceduta dall’imprenditore Alejandro De Tomaso insieme alla fabbrica di Lambrate che però viene chiusa da Fiat già nel 1993, con il marchio che, prima di sparire nell’oblio, viene utilizzato solo per un tentativo poco convincente di abbinarlo ai modelli di gamma economica di Torino fabbricati all’estero.
Nel 1986 era stata la volta dell’Alfa Romeo, ceduta dall’IRI a Fiat (che la accorperà alla Lancia già rilevata nel 1969) con modalità che ancora oggi suscitano aspre polemiche mai sopite. In ogni caso, nel 2005 anche il sito Alfa Romeo di Arese cessa ogni attività e perfino l’annesso e bellissimo museo storico del marchio del Biscione risulta oggi chiuso al pubblico. Nel 1993 se ne va anche lo storico stabilimento Lancia di Chivasso, passato da Fiat alla Maggiora, che lo gestirà (producendo modelli del Lingotto) fino al fallimento del 2003. Nello stesso anno, Fiat si libera anche della fabbrica di Rivalta (che nei primi anni 70 contava circa 18mila dipendenti e che era stata la culla della mitica 128) che dopo il trasferimento della produzione della Lancia Thesis a Mirafiori, viene conferita al consorzio Carlyle-Finmeccanica insieme alla divisione Fiat Avio dei motori aeronautici.
Il resto è storia recente: oggi gli stabilimenti di Mirafiori e di Cassino restano in piedi solo grazie all’esteso ricorso alla cassa integrazione, con la produzione del primo ridotta alla sola Alfa Romeo MiTo e quella del secondo limitata all’Alfa Romeo Giulietta e alle residue Fiat Bravo e Lancia Delta, ormai al termine della vita commerciale. Per Termini Imerese la chiusura definitiva è avvenuta nel 2010. Senza contare, uscendo per un attimo dall’ambito strettamente automobilistico, lo stop imposto anche al sito campano Irisbus, interamente di proprietà Fiat, la cui produzione di autobus e filobus, ridotta a poco più di un centinaio di pezzi l’anno, è stata trasferita ad Annonay, in Francia. Quanto alla forza lavoro, due numeri per tutti: nel 1980 i dipendenti diretti Fiat nella sola Torino erano circa 130mila; oggi, in tutta Italia sono meno di 80 mila, dei quali non pochi stipendiati dallo stato tramite gli ammortizzatori sociali.
Dal punto di vista del funzionamento e della prosperità dei vari marchi della costellazione Fiat, oltre alla sparizioni di Innocenti e Autobianchi, acquistati più che altro per eliminarli dal novero dei concorrenti, va ricordato il pesante declino di Alfa Romeo. Il mancato decollo del Biscione fino alla prevista produzione di 400mila unità annue (oggi siamo sì e no a un quarto di quel valore) che costituivano l’obiettivo di Marchionne rappresenta oggi una delle sconfitte più cocenti subite del manager italo-canadese. L’ultima cattiva notizia è la prossima sparizione anche di Lancia, annunciata con termini paludati dallo stesso Marchionne pochi giorni fa: “Lancia non sarà più quella di una volta”, ha dichiarato, condannando la storica firma a sopravvivere con modelli Chrysler made in Usa e poi rimarchiati che nulla hanno a che fare con il dna delle Lancia del passato, e con la Ypsilon (fabbricata in Polonia) che durerà… fino a quando durerà. Poi, probabilmente, il nulla.
Tralasciando i miti Ferrari e Maserati (il primo un indiscutibile valore aggiunto del gruppo, l’altro assai meno e in attesa di rilancio), che sono due pianeti a sé, e trasferendo il bilancio tra successi e insuccessi ai modelli, cominciamo col citare i primi, che si chiamano Fiat Uno, Lancia Delta e Dedra, Lancia Thema (ovviamente quella vera, del 1984), Fiat Panda (1a e 2a serie), Alfa Romeo 147 e 156, Fiat Punto e Grande Punto (ma in misura minore rispetto alla fenomenale Uno da 8 milioni di esemplari) e poco altro. Di contro, vanno registrati i sostanziali flop commerciali di Fiat Tipo (la presunta rivale della Volkswagen Golf, che vera rivale non fu mai) e Tempra ma, ancora peggio, quelli assai più consistenti della sfortunata coppia Bravo-Brava, della Marea, delle infelici Stilo e Duna, dell’attuale Bravo (lanciata nel 2007 con una discreta fretta e con obiettivi di vendita non certo ambiziosi), delle Lancia K e Lybra e della tremenda voragine creata nei conti del Lingotto dall’ammiraglia Lancia Thesis prodotta in appena 16mila esemplari in otto anni e che “ci costa un miliardo di euro”, come ebbe a dire lo stesso Marchionne.
Tuttavia, ciò che più fa impressione non sono tanto i flop dei modelli (quasi ogni costruttore può lamentare in buon numero i suoi, che a casa della tanto osannata Volkswagen-Audi, per esempio, si chiamano Jetta e Bora, senza contare la recente e non molto gradita up! e l’incomprensibile Audi A1), ma il fatto che molti di questi modelli non siano più stati sostituiti da altri: senza eredi sono rimaste per ora le Fiat Marea, Stilo MultiWagon, Multipla e Croma, le Alfa Romeo 166, 159 e Spider, la Lancia Lybra e la stessa Thesis. Insomma, interi segmenti di mercato sono stati lasciati alla concorrenza e non può non creare perplessità il fatto che oggi la produzione automobilistica italiana non sia in grado di proporre, per esempio, una sola berlina popolare di taglia e prezzo medi, né una vettura giardinetta di qualsiasi segmento, né una spider in grado di riproporre almeno in parte i fasti della mitica Alfa Romeo Duetto guidata da Dustin Hofmann ne “Il laureato”. “I nostri concorrenti lanciano modelli nuovi in un mercato che non tira e perdono soldi”, continua a sostenere un convinto Marchionne per giustificare i vistosi buchi nella gamma.
Può darsi che il manager abbia ragione e che la strategia di Fiat di non investire in nuove proposte in tempi di crisi per rimandarle a tempi migliori si rivelerà a lungo andare vincente. Tuttavia, non può sfuggire, anche se molti tendono a dimenticarlo, che la decisione di abbandonare vasti segmenti del mercato ai concorrenti è largamente precedente all’avvitarsi della congiuntura sfavorevole e della penuria di vendite che affliggono l’Europa e il suo mercato automobilistico, italiano in particolare. L’ultima Fiat Marea, non sostituita da alcun modello, uscì dalle catene di montaggio di Cassino nel lontano 2003, cioè quando il mercato andava ancora bene, mentre la decisione di non sostituire la giardinetta Stilo Multiwagon fu presa più o meno mentre ci si avviava a un 2007 che avrebbe registrato il record storico italiano di quasi 2,5 milioni di nuove immatricolazioni. Quindi, la decisione di Marchionne di non presidiare più alcuni settori dove altri costruttori hanno invece mantenuto la loro presenza è di vecchia data. In altre parole, non dipende affatto da una crisi che ancora non c’era e che avrebbe iniziato a farsi sentire in tempi più recenti.
Piuttosto, ci sono altre spiegazioni più sensate da prendere in considerazione. La prima, già ventilata in passato da qualche analista, è che Marchionne, a corto di munizioni finanziarie, sia stato costretto a scegliere tra il rinnovo della gamma e l’avventura americana, decidendo poi per quest’ultima opzione, anche se oggi sembra voler fare esattamente il contrario: soprassedere all’acquisto del rimanente pacchetto azionario Chrysler per dedicarsi alla cura dei malanni europei di Fiat. La seconda spiegazione, assai meno o per niente chiamata in causa, ma in certi ambienti sussurrata per non farsi sentire, può apparire impietosa e magari anche provocatoria, ma alla luce dei frequenti flop commerciali del gruppo negli ultimi anni, appare tutt’altro che priva di logica: Marchionne sapeva e sa tuttora che la Fiat, priva delle guarentigie statali che in passato le hanno permesso di operare in un regime di quasi monopolio, oggi non è più in grado di competere con la migliore concorrenza europea. Quindi, la mancata presentazione di novità Fiat non è dovuta alla previsione che non verranno assorbite da un mercato in affanno, ma dal timore di un Marchionne che, più realista del re, ritiene che i nuovi modelli del gruppo, com’è già avvenuto in passato, non siano in grado di spuntarla nei confronti di una concorrenza sempre più qualificata e aggressiva. Che oggi, tanto per essere chiari, potrebbe non chiamarsi necessariamente Ford, Opel, Renault o Volkswagen, ma piuttosto Kia o Hyundai. Le quali, detto per inciso, in Europa oggi si difendono egregiamente in barba alla crisi.