Mentre piovono razzi, gli scienziati riesumano Arafat

Mentre piovono razzi, gli scienziati riesumano Arafat

Sulle alture rarefatte di Ramallah, un imponente monumento funerario di marmo e pietra bianca di Palestina domina la città ed il Palazzo della Muqata’a, la residenza dove fu confinato il leader palestinese Yasser Arafat per ordine d’Ariel Sharon il 3 Dicembre del 2001. È in questo mausoleo, circondato dal silenzio e da un discreto picchetto militare, in cui riposano le spoglie dell’ex leader dell’Olp, deceduto all’età di 75 anni l’11 Novembre del 2004. Da qualche giorno, i visitatori che s’arrampicano fin quassù per visitare il luogo di sepoltura di Abu Ammar (nome di battaglia d’Arafat) hanno trovato i cancelli del mausoleo inspiegabilmente chiusi. La ragione? Mahmoud Abbas ha dato il via libera alcuni giorni fa alla procedura per riesumare il corpo del rais. Il silenzioso e austero mausoleo è tornato al centro di quello che potrebbe essere un vero e proprio intrigo internazionale. La domanda che aleggia sulle alture di Ramallah è infatti la seguente: Yasser Arafat è stato davvero avvelenato?

Per fare luce su questo mistero, un gruppo di magistrati francesi si prepara a raggiungere il luogo di sepoltura del rais il 26 Novembre prossimo nell’ambito di una commissione rogatoria internazionale che vedrà la partecipazione di magistrati francesi – che hanno ricevuto l’ok dall’Autorità Palestinese e dalla moglie d’Arafat per riesumare il corpo al fine di fare alcuni prelievi – da inquirenti russi e da specialisti giunti dalla Svizzera. La presenza di quest’ultimi non è casuale.

Proprio un laboratorio dell’Istituto di Radiofisica di Losanna, dopo accurate analisi durate oltre nove mesi, aveva trovato tracce di polonio 210 (sostanza radioattiva, 250.000 volte più nociva del cianuro di potassio) sugli effetti personali dell’ex leader palestinese (indumenti intimi, kefiah, spazzolino). Il polonio è quella stessa sostanza portata alle luci della ribalta perché utilizzata per assassinare la spia russa Alexandre Litvinenko, fervente oppositore di Putin. Del polonio fu poi vittima illustre la stessa Marie Curie che lo scoprì assieme a suo marito Pierre nel 1898 dandole un nome curioso che in realtà voleva soltanto ricordare ai posteri le sue origini polacche.

Ma facciamo un passo indietro e torniamo a Ramallah, nell’Ottobre del 2004. Il leader dell’Olp è malato da settimane. Rinchiuso nel suo quartier generale dal Dicembre 2001, isolato da Israele, dalle potenze occidentali e dai suoi stessi ex-fedelissimi che già preparano la successione, il rais è minato da un male oscuro, misterioso, che lo rode lentamente da dentro. A visitarlo giungono medici da Egitto, Tunisia, Giordania. I medici però brancolano nel buio. Il rais è gravemente malato ma non si capisce esattamente quale sia il suo male. Inzialmente si parla di un’anomalia del sangue dovuta ad un’infezione di originale virale, poi si parla di cancro o di avvelenamento del sangue.

Qualche giorno dopo, il 27 Ottobre, la radio israeliana annuncia che Arafat ha perso conoscenza. Il suo stato viene giudicato subito critico. Il giorno dopo l’entourage d’Arafat rassicura tutti, il rais sta bene. Vengono diffuse immagini di un rais in pigiama e con un berretto di lana blu estremamente dimagrito ma sorridente. Si capisce a vista d’occhio però che il suo stato è critico. Israele allora mette le mani avanti e prima che la fiamma del rais si spenga definitivamente, per bocca del portavoce d’Ariel Sharon, fa sapere che il leader può finalmente lasciare il quartier generale-prigione della Muqata’a per ricevere cure adeguate all’estero.

Su richiesta dell’Autorità Palestinese, qualche giorno dopo, arriva da Amman (Giordania) un elicottero militare che prende in consegna Arafat. Quello che sale sull’elicottero è un rais pallido ed emaciato. L’elicottero atterra all’areoporto militare di Villacoublay, in Francia. Da qui il leader dell’Olp viene trasferito d’urgenza all’ospedale militare Percy a Clamart, a Sud Ovest di Parigi dove esiste un reparto specializzato in ematologia. Ma anche qui i medici, malgrado una serie successiva di test, sono incapaci di stabilire quale sia il male che attanaglia il rais che appare sempre più debole e prossimo alla morte. La moglie di Arafat, Suha, che già sospetta un avvelenamento, porta con sé in Francia tutti i farmaci coi quali era stato curato Arafat e li consegna alla Dst (il controspionaggio francese).

Il gesto si spiega con i legami stretti che l’entourage d’Arafat stringeva con la Dst sin dai tempi dell’assassinio d’Atef Bseiso, il responsabile dell’Olp ucciso davanti ad un hotel nei pressi della stazione di Montaparnasse a Parigi (di quell’omicidio fu accusato il Mossad, il servizio segreto israeliano). Suha è nervosa. Non vuole che ci si avvicini al marito Yasser. I colonnelli di Fatah scalpitano invece per riunirsi al capezzale del capo per indicare un successore prima che sia troppo tardi. In effetti più che il Mossad, Souhad teme la congiura interna, la lotta di potere “per seppellire vivo Abu Ammar” come dice lei stesso con voce tremante alle antenne di Al-Jazeera.

Intanto i medici continuano i loro prelievi e i test. I campioni prelevati vengono etichettati con falsi nomi. Una volta Etienne Louvet, un’altra volta Frédéric Martipon. Con in mano i risultati delle analisi, una ad una vengono scartate le diverse ipotesi: tumore maligno, cirrosi epatica, virus dell’Aids. Intanto lo stato di salute di Yasser Arafat si degrada a vista d’occhio. L’ex leader dell’Olp non ce la fa e muore alle 3: 30 dell’11 Novembre 2004 per un’emorragia cerebrale. L’équipe di medici che lo ha seguito con accanimento fino alla fine depone le armi dichiarandosi incapace di stabilire le cause della sua morte.

E qui finisce una storia e ne comincia un’altra. Perché malgrado le accuse (senza prove) della moglie, nessuno ancora parla di polonio (a quell’epoca infatti non era tra le sostanze ricercate in caso di morte sospetta ma lo sarà dopo il Novembre del 2006, ovvero dopo l’assassinio di Litvinenko). Nel 2005 però Amos Harel, ex reporter di Galé-Tsahal (radio militare israeliana) e specialista delle questioni militari per il quotidiano Haaretz, ed Avi Isacharoff, specialista del mondo arabo e di questioni palestinesi per la radio Kol Israël pubblicano prima in Israele, poi in Francia, il libro “La Settima Guerra d’Israele”.

Nel libro i due giornalisti israeliani raccontano di essere riusciti a mettere le mani su documenti segreti dell’ospedale militare francese dai quale trapela un possibile avvelenamento dell’ex leader dell’Olp. L’autorevole New York Times stronca però il libro parlando invece di “infezione sconosciuta” ed escludendo categoricamente la pista dell’avvelenamento. Intanto però Sylvain Shalom, ministro israeliano degli esteri, esorta i medici a pubblicare le cause reali del decesso di Arafat.

Ed eccoci all’estate del 2012. Un reportage di Al Jazeera rilancia le accuse rivelando i dettagli delle analisi del laboratorio dell’Istituto di Radiofisica di Losanna. Quest’ultimo però aveva sì ravvisato tracce anomali di polonio sugli effetti personali di Arafat ma non in misura abbastanza ragguardevole per affermare che c’era stato effettivamente avvelenamento. Sull’onda emotiva generata dal reportage d’Al Jazeera la Procura di Nanterre decide però di aprire un’inchiesta per assassinio. Ora la parola spetta ai magistrati, ai poliziotti e soprattutto agli esperti francesi e svizzeri che riesumeranno il corpo e s’applicheranno in un difficile compito.

Far parlare il corpo di Arafat, proprio come nelle popolari serie-tv americane. Otto anni dopo però non è facile rinvenire tracce di polonio nella salma di Arafat. Il polonio attacca generalmente il fegato, lo stomaco o il midollo osseo. Ora, degli organi dell’ex leder dell’Olp non resta più nulla dunque agli specialisti toccherà prevelare campioni di tessuto osseo dal bacino o dallo sterno, ridurlo in polvere e analizzarlo. L’operazione resta però difficile e l’esito è più che incerto.

Ma resta la domanda fondamentale, quella che tiene con il fiato sospeso sia israeliani che palestinesi ma anche la comunità internazionale. Chi aveva davvero interesse ad avvelenare il leader palestinese? C’è da dire che negli ultimi tempi il rais non navigava in buone acque ed era estremamente isolato. Durante la Seconda Intifada Arafat era stato criticato aspramente dalle autorità israeliane in quanto ritenuto responsabile delle violenze ed è per questa ragione che Sharon lo aveva messo al confino ed assediato militarmente nel suo stesso quartier generale.

Sul fronte interno non andava molto meglio. Arafat era oramai visto come un leader debole, soprattutto nei negoziati ed era stato accusato di aver fatto troppe concessioni ad Oslo (i Palestine Papers avrebbero rivelato più tardi non solo il rifiuto israeliano di importanti concessioni da parte dei Palestinesi ma anche il tradimento del capo negoziatore palestinese Saeb Erekat che aveva offerto su un piatto d’argento larghe porzioni di Gerusalemme Est, compreso le colonie ebraiche e addirittura parti della città vecchia).

A livello internazionale poi il rais aveva perduto l’antico prestigio perché la sua ostinazione era ormai considerata come il principale ostacolo al processo di pace. Insomma la sua morte faceva comodo a molti. Basteranno allora poche tracce di polonio per restituirci la verità sulle ultime ore del leader storico palestinese?

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