No al rinnovamento, nel Politburo cinese ha vinto Jiang Zemin, l’Andreotti d’Oriente

No al rinnovamento, nel Politburo cinese ha vinto Jiang Zemin, l’Andreotti d’Oriente

PECHINO – Con un’insolita ora di ritardo, la Cina ha presentato il suo nuovo cuore politico:
Xi Jinping (1953, ingegnere), Li Keqiang (1955, avvocato), Zhang Dejiang (1946, economista), Yu Zhengsheng (1945, ingegnere), Liu Yunshan (1947, giornalista), Zhang Gaoli (1946, economista), Wang Qishan (1948, storico). Stampateveli bene in testa. Sono i sette che governeranno la seconda economia mondiale e il Paese più popoloso del mondo per i prossimi dieci anni. Sono il nuovo comitato permanente del Politburo del Partito comunista cinese: la stanza dei bottoni, la quinta generazione della leadership, quelli che decidono dietro alle quinte e poi comunicano risoluzioni prese “all’unanimità”.

Da segnalare che Xi Jinping, nuovo numero uno del Paese, sarà leader incontrastato, quanto a cariche: Hu Jintao, presidente uscente, ha infatti lasciato la carica di capo della commissione militare centrale nelle mani di Xi Jinping, che avrà quindi il controllo totale anche dell’esercito.

Xi si è presentato alla stampa in modo spavaldo, con un breve discorso dai toni insolitamente aperti con la stampa e con una spigliatezza che già segna un cambiamento rispetto al grigiore ovattato di Hu Jintao. È molto presto per fare valutazioni, ma la frase finale, «la Cina ha bisogno di sapere di più sul mondo e il mondo deve sapere di più sulla Cina», lascia presagire una mini apertura anche nei consueti distanti e difficili rapporti tra comandancia cinese e stampa internazionale.

Alcuni dei nuovi sette imperatori, li avevamo già presentati su Linkiesta: dopo la «tecnocrazia degli ingegneri» (otto su nove nel precedente comitato), sembrerebbe inaugurarsi una leadership più complessa e articolata, almeno nella formazione personale dei singoli.

Tuttavia – a stretto giro di nomine – possiamo effettuare alcune osservazioni: innanzitutto è mancato il rinnovamento vero, dato che esclusi i due nuovi numeri uno e due (Xi Jinping e Li Keqiang), gli altri sono tutti over 65 e dovranno quindi essere sostituiti entro la fine del prossimo mandato. Il che significa, in altre parole, che il “shi ba da” (grande diciottesimo) non è stato un nuovo inizio e che i prossimi cinque anni saranno di transizione. Di fronte a un economia che rallenta, al 7,5 rispetto alle doppie cifre cui la Cina ci aveva abituato e rispetto al piano di crescere all’8,5 percento, la Cina sembra scegliere una strada di transizione anche politica, forse bloccata dalla terribile guerra interna che si è scatenata con l’epurazione di Bo Xilai (il leader di Chongqing epurato, espulso e ora in attesa di processo).

Primo dubbio: la Cina, che sembra avere esaurito la spinta propulsiva datale dal modello di sviluppo che ha funzionato negli ultimi trent’anni e che si trova ad affrontare una realtà esterna e interna sempre più complessa, può permettersi questa lunga transizione?

È chiaro che Xi Jinping, misterioso ed enigmatico ad oggi circa le volontà politiche e di “riforma”, dovrà puntellare la sua leadership. Non solo, perché oltre a creare il proprio spazio di azione dovrà anche gestire la transizione definitiva tra quinta e sesta generazione. C’è da chiedersi se riuscirà a destreggiarsi tra volontà della classe media che scalpita per le riforme, resistenze interne dei gruppi di potere e la necessaria ambizione di ogni leader cinese a creare un proprio solco politico e un mini Impero di nomine.

C’è poi la questione dei “principini” (daizi dang), l’aristocrazia comunista: i figli, o parenti, o parenti acquisiti, della vecchia nomenklatura del Pcc, assurti alle massime cariche in virtù dell’appartenenza familiare e sociale. È la corrente dietro a cui si staglia l’ombra di Jiang Zemin, l’Andreotti d’Oriente, il grande vecchio (86 anni) della politica cinese, colui che pur non occupando nessuna carica formale, è sempre comparso di fianco a Hu Jintao nella prima linea del potere, quasi a sorvegliarlo. Nella rincorsa ai vertici, i daizi dang si contrappongono ai tuanpai, cioè quelli che hanno fatto carriera nella Lega dei giovani comunisti, che si sono “fatti da sé”, come l’ex presidente Hu Jintao. Ebbene, a partire dallo stesso neo segretario generale e presidente Xi Jinping, tutti i neonominati, fatta eccezione per il premier Li Keqiang, sono principini o collegati in qualche modo a Jiang Zemin. La consegna “chiavi in mano” anche della Commissione militare centrale nelle mani di Xi, da parte di Hu, sembrerebbe sancire il definitivo trionfo dell’aristocrazia rossa. Secondo dubbio: la nuova leadership rappresenta una scelta consapevole per il bene della Cina o è soprattutto l’esito di una lotta di potere interna, volta in primis a tutelare privilegi?
 

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