Sono tanti, sono trendy e trasversali e occupano tutti i gradini della scala sociale. Hanno in comune tre cose: l’amore per la bicicletta, l’amore per l’ambiente e l’odio per il traffico. Si ritrovano nelle ciclofficine , dove costruiscono i loro mezzi di trasporto o li riparano e si radunano almeno una volta al mese per pedalare tutti insieme e fare massa critica (da qui il nome del movimento) contro gli abusi delle auto, l’inquinamento che esse producono e ilfurto degli spazi urbani comuni, sempre meno accessibili.
Esistono da vent’anni, comunicano via web, non hanno guru, né leader, o almeno così dicono, tanto che persino i percorsi non vengono mai prestabiliti, ma nascono di volta in volta spontaneamente e scorrono, seguendo una propria intrinseca, naturale direzione, proprio come i fiumi.
Ma se non hanno capi, i biker, comunque, hanno punti certi di riferimento e di aggregazione sul territorio e sempre di più rispetto al passato tendono a darsi una precisa organizzazione, tanto che in alcune città del mondo sono diventati veri e propri gruppi di pressione, vere e proprie lobby che dialogano con le istituzioni. È accaduto a San Francisco, dove il movimento è ben inserito nel contesto politico e i suoi Sunday Streets sono diventati un’istituzione. È accaduto a Quito, in Ecuador, dove i ciclisti sono arrivati ad ottenere fondi dal governo per ridisegnare a misura umana lo scenario urbano. È accaduto a Città del Messico, dove l’attuale sindaco ha creato un servizio pubblico di biciclette.
Sta accadendo a Roma, dove una consistente parte di biker, nella convinzione appunto che bisogna interagire con le autorità locali per cambiare le cose, ha fondato un coordinamento, ormai ben conosciuto, e con all’attivo numerose iniziative e grande visibilità sui media, che si chiama Di Traffico Si Muore. Una posizione non condivisa da tutti ma che comunque appare vincente rispetto al nostalgismo di quei ciclisti che continuano a credere che non si debba stringere la mano al potere e che l’azione diretta dal basso sia l’unica possibile e la più efficace.
Quale che sia la strategia, il comune denominatore rimane: i ciclisti romani, come quelli delle altri grandi città del pianeta, si battono uniti contro «il modello di spostamento creato intorno all’automobile e a tutto ciò che ne deriva: stress, frustrazione…, ingombro, separazione dagli altri, irritazione, rabbia latente, inquinamento…fino alle conseguenze meno ovvie, cioè la costruzione di quartieri cittadini sempre più lontani dal centro e mal serviti dal servizio pubblico perché “tanto c’è la macchina”: un cane che si morde la coda, una catena di schiavi. La massa vuole spezzare questa catena mostrando ciò che potrebbe essere e ancora non è: una città libera dalle lamiere spesso vuote delle automobili e una vita normalmente svolta semplicemente utilizzando il mezzo di spostamento più ingegnoso e più semplice mai inventato dall’uomo: la bicicletta».
È questo il vero spirito di Massa Critica e lo spiega bene Paolo Bellino (più conosciuto dai ciclisti italiani come Rota Fixa) nella introduzione a “Critical Mass- Noi siamo il traffico”, il libro-bibbia del movimento appena pubblicato dalla casa editrice Memori per il ventesimo anniversario della Bike Revolution. Un libro, gemello di quello uscito in contemporanea a San Francisco patria della prima Massa Critica, che riporta un prezioso contributo di Chris Carlsson, il fondatore e ambasciatore globale del movimento, e il racconto di esperienze e di punti di vista di numerosi critical masser del pianeta. Ne emerge una filosofia nuova, una visione nuova dello stare in città, per strada, con gli altri. E anche un metodo nuovo: si può sperare di migliorare il mondo semplicemente facendo massa critica.
E se, sul futuro e le reali potenzialità di questo movimento alcuni sociologi, come Sabino Acquaviva, restano scettici, sostenendo che in venti anni non ha prodotto nulla e che le città continuano a rimanere dominio assoluto delle auto, altri invece, invitano a non sottovalutare la portata e l’impatto di fenomeni del genere, nonostante l’ apparente ‘leggerezza’, che discende dalle loro caratteristiche di provvisorietà e spontaneità e nonostante si presentino destrutturati.
«Si tratta di fenomeni – osserva Francesco Mattioli, docente all’Università La Sapienza di Roma- facilitati dai new media, che consentono in breve tempo di innescare comportamenti collettivi e forme di aggregazione spontanea mirate su suggestioni del momento. Ma in certi casi danno avvio a movimenti di massa, come è avvenuto nella primavera araba. Ed è possibile che domani sia la forma “normale” di mobilitazione delle masse o di determinate categorie di soggetti con obiettivi comuni. Insomma, una nuova forma di comunicazione della volontà popolare».
«Per ora credo – conclude il sociologo – che si tratti soprattutto di un modo di fare qualcosa di ‘diverso’ e, soprattutto, di sperimentare nuove forme di aggregazione in una società che isola l’individuo oppure lo fa dialogare solo attraverso il mondo virtuale di facebook. Qui invece la gente si incontra, e fraternizza nello “stare insieme” a “fare qualcosa in comune”». Ma senza aver provato non si può capire: «chi non è mai stato in massa – spiega Rota Fixa – dovrebbe andarci soprattutto per vedere e toccare questo piccolo miracolo, che non nasce da fede o divinità ma dall’intenzione umanissima di avere una vita migliore nel proprio spostamento».