«Ricostruiremo l’economia. Ricostruiremo il Giappone». Così Shinzo Abe, segretario del Partito liberal democratico (Ldp), ha lanciato la sua candidatura alla guida del Sol Levante per i prossimi quattro anni.
È certamente l’economia il capitolo più sensibile del dibattito elettorale in vista delle elezioni del prossimo 16 dicembre. I dati più recenti non sono affatto confortanti. Come ha rilevato questa settimana Bloomberg partendo dai dati ufficiali rilasciati dal ministero delle Finanze, il Giappone è ufficialmente in recessione. A preoccupare maggiormente analisti ed economisti in questo momento è la bilancia commerciale giapponese, che segna un deficit di circa 50 miliardi di euro nel solo 2012. E i numeri relativi a ottobre evidenziano il decimo mese consecutivo di calo.
Da tre anni a questa parte l’export, settore da sempre trainante dell’economia nipponica, è in crisi. La situazione è particolarmente difficile nel settore delle tecnologie (Panasonic e Sharp) e delle auto (Toyota, Nissan, Honda e Suzuki in particolare). Certo, hanno inciso l’apprezzamento dello yen (più 30% rispetto al 2007) e la crisi economica in Occidente. Ma a peggiorare la situazione è intervenuta la crisi diplomatica con il più importante cliente del Giappone: la Cina.
La contesa territoriale con la Cina sulle isole Senkaku o Diaoyu, costantemente peggiorata dall’11 settembre scorso, quando il governo giapponese annunciò l’acquisto dei tre isolotti principali del piccolo arcipelago, ha portato a un calo delle esportazioni verso il Paese di mezzo di circa l’11,5 per cento.
E la caduta non sembra destinata a frenarsi. Anche perché la Cina ha iniziato a rallentare. «L’economia cinese ha toccato un minimo storico nel periodo tra luglio e settembre», spiegava Yuichi Kodama, capo economista della Meiji Yasuda Life Insurance di Tokyo a Bloomberg il 22 novembre scorso. «E non c’è nessun indizio che i consumatori cinesi smettano di boicottare le auto giapponesi», la cui esportazione quest’anno è calata dell’82 per cento.
Rimane poi il problema del debito pubblico, stabile a più del doppio (235%) del Prodotto interno lordo nazionale, che fa del Giappone il Paese più indebitato del “primo mondo”. «Serve una nuova politica monetaria e per favorire l’immigrazione e i risparmiatori stranieri», aveva detto Angel Gurria, capo dell’Ocse, al Wall Street Journal il 12 ottobre scorso. «Se ci fosse stata una maggiore apertura nei confronti dei risparmi stranieri», concludeva Gurria, «il debito – detenuto principalmente da creditori nazionali – non sarebbe schizzato oltre il 200 per cento».
L’insostenibilità della situazione ha spinto il governo del Partito democratico (Dpj) ad approvare, sotto gli auspici di Fmi e Banca mondiale, l’innalzamento della tassa sui consumi – la più bassa dei Paesi Ocse – dal 5 al 10%, ma si è politicamente “suicidato” tra rimpasti di governo e scissioni interne. Il Ldp ha messo in campo tutta la propria astuzia politica, prima costringendo l’attuale primo ministro Yoshihiko Noda a tre rimpasti di governo, poi strappandogli la promessa di sciogliere le camere al più presto e convocare le elezioni. Adesso che le elezioni sono dietro l’angolo, il Ldp pregusta il ritorno alla maggioranza dopo 3 anni di stop. «Prenderemo al più presto tutte le misure necessarie a livello fiscale e monetario per fermare la deflazione», ha dichiarato recentemente Abe, che ha espresso più volte la volontà di non incrementare la pressione fiscale. «Convinceremo la banca centrale (la Bank of Japan, Boj) a comprare i bond infrastrutturali del governo», ha promesso il leader del Ldp.
Il programma di Abe è chiaro. Riavviare la macchina giapponese attraverso l’aumento della spesa pubblica. Una politica criticata da più parti e in particolare dall’attuale governatore della Banca centrale Masaaki Shirakawa, secondo cui la politica economica del Ldp «non sarebbe realistica» e non farebbe che peggiorare il già sproporzionato debito pubblico. Una posizione, questa, supportata anche dal governo uscente, che rincara: «Abe vuole riportare il Giappone ai tempi della guerra». «Una politica economica come la sua», ha aggiunto in settimana Goshi Hosono, responsabile per le politiche del Dpj, «è pericolosa e va archiviata al più presto».
Abe, che attualmente è in vantaggio nei sondaggi sul premier uscente Noda è per molti sostenitori del Ldp la persona giusta per tirare fuori il Paese dal suo limbo ventennale. Ha il pedigree giusto in un Paese dove la politica è un affare ereditario, in cui per altro si intrecciano gli interessi della burocrazia e delle grandi corporation. Figlio di un ex ministro degli esteri, nel 2006 è diventato, anche se solo per un anno, il più giovane primo ministro del Giappone dal dopoguerra.
Punto fermo del suo programma politico fu un tentativo di ripristinare l’orgoglio nazionale, per troppo tempo subordinato al rapporto con gli Usa. Prima di diventare capo del governo, Abe aveva infatti portato all’attenzione pubblica la causa di alcuni giapponesi trattenuti in Nord Corea negli anni Settanta e condotto campagne per la revisione dei testi di storia in uso nelle scuole.
Una volta al potere, poi, tentò con scarsi successi di riportare in auge i valori di patriottismo e tradizione nel sistema educativo nazionale, dimostrandosi ancor più radicale nelle sue posizioni conservatrici del predecessore Jun’ichiro Koizumi. A sei anni di distanza dal suo primo mandato, Abe non ha cambiato di molto il proprio programma politico. Al di là della sua ricetta per risollevare l’economia, fa discutere l’idea di Abe per rafforzare la sicurezza nazionale del Giappone.
Sarà proprio sul tema sicurezza che si giocheranno i destini dei contendenti alle prossime elezioni parlamentari giapponesi. Considerate le crescenti tensioni con la Cina e la sempre presente minaccia della Corea del Nord dei Kim, Abe avrebbe in mente una revisione dell’articolo 9 della costituzione giapponese post-bellica, per modificare lo status del jiheitai (le Forze di autodifesa), per trasformarlo a tutti gli effetti un esercito nazionale regolare, che possa garantire al Giappone la giusta protezione contro eventuali minacce provenienti dall’esterno. Il che significa dare la possibilità al Giappone non solo difendersi ma di attaccare.
Una scelta che metterebbe in allerta la Cina. Paradossalmente, però, al momento Abe rimane, su sua personale ammissione, il candidato ideale per riallacciare i rapporti con la Cina. Già, perché era stato proprio lui a riallacciare nel 2006 i rapporti con Pechino, programmando il suo primo viaggio ufficiale da premier nella Repubblica popolare.
Sul fronte interno comunque piovono critiche al progetto. «Il Partito liberale attraverso una riforma costituzionale vuole trasformare il jiheitai in un esercito regolare. Il Partito democratico, invece vuole mantenere il pacifismo della costituzione del nostro Paese» ha dichiarato Jun Azumi, ex ministro delle finanze e ora segretario esecutivo dei democratici.
Su questa proposta il Lpd è sempre più vicino a un altro protagonista degli ultimi turbolenti mesi della politica giapponese: l’ex governatore di Tokyo Shintaro Ishihara. Questi, insieme con il sindaco di Osaka, Hashimoto Toru, è a capo del Partito per la Restaurazione (PdR), formazione di chiaro indirizzo nazionalista e conservatore.
Ishihara è conosciuto soprattutto per le sue uscite provocatorie e fulminee: dal negazionismo sui crimini di guerra nipponici in Cina alla campagna per un “Giappone che può dire no” all’imperialismo economico americano; dalle provocazioni alla Cina sulle isole Senkaku/Diaoyu, alla fulminea discesa in campo con negli occhi un Giappone sempre più simile “al Titanic che affonda”.
Ipotizzando che il PdR appoggerà un governo di coalizione con al centro il Lpd, oggi ancor più che nel 2006, i vicini asiatici hanno buone ragioni di essere preoccupati.