La riforma dell’impresa sociale è buona, ma serve anche altro

La riforma dell’impresa sociale è buona, ma serve anche altro

L’emendamento (3.2000) al decreto 155/06, presentato al Senato nell’ambito dell’esame del ddl relativo alla Legge di Stabilità, ha dato vita ad un accesso dibattito. Qualcuno parla di attacco al Terzo settore, qualcuno di rivoluzione dell’impresa sociale in Italia. In attesa di verificarne l’esito nell’iter parlamentare, vogliamo esprimere la nostra posizione sull’argomento, contribuendo ad alimentare una discussione che ci vede da tempo molto partecipi.

Due i piani di valutazione, sul metodo e sul merito, di questa proposta di revisione della legge sull’Impresa Sociale.

Per quanto riguarda il metodo non possiamo condividere la scelta di usare un emendamento di altro provvedimento legislativo, per altro di vitale importanza e prossimo alla votazione. Sorprende anche l’iniziativa quasi a sorpresa, non partecipata e condivisa da tutti quei soggetti che in questi anni hanno discusso e ragionato sulla riforma dell’Impresa Sociale. L’importanza del tema meriterebbe certamente ben altro trattamento. Ma sappiamo anche che la genesi delle norme non segue sempre i percorsi più lineari e che a volte occorre sfruttare le occasioni che si presentano nelle circostanze più improbabili.

Nel merito, il provvedimento crea una netta separazione tra profit e non profit all’interno della categoria Impresa Sociale, dando alle organizzazioni riconosciute come Impresa Sociale la possibilità di distribuire utili (fino al 50% dell’utile netto) esclusivamente a imprese profit e amministrazioni pubbliche che siano azioniste (non ai soci e azionisti persone fisiche). Le Onlus e gli enti non commerciali del DL 460/1997 fanno eccezione e sono espressamente esclusi.

Facciamo un passo indietro. L’Impresa Sociale ex d.lgs.155 non crea una nuova categoria di persone giuridiche, ma propone una qualifica aggiuntiva, applicabile a tutte le organizzazioni che esercitano attività economica per la produzione di beni e servizi di utilità sociale. La ratio del decreto era quella di offrire all’imprenditore sociale una pluralità di forme possibili per l’esercizio della sua attività, ivi inclusa quella della società commerciale. Tale facoltà, peraltro, non rispondeva ad un’istanza “estetica”, bensì ad un bisogno reale, cioè l’accesso al mercato dei capitali, che è di fatto precluso alle non profit. È vero che, teoricamente, anche le cooperative, e non solo le società di capitali del Libro Terzo del codice civile, sono “investibili”; ma la pratica ci insegna che, in realtà, i meccanismi per farlo sono troppo complessi e vischiosi.

Nonostante si fondasse su presupposti condivisibili, tuttavia l’esito dell’applicazione del decreto 155 si può considerare a tutti gli effetti fallimentare. Dal Rapporto sull’Impresa Sociale (Aiccon) emerge che le Imprese Sociali ex lege sono solo 400 a fronte di 13mila imprese sociali di fatto (di cui 11 mila le cooperative sociali).

Il decreto 155 sembra dunque respingere le diverse organizzazioni che danno espressione all’imprenditoria sociale in senso lato. Vediamo perché:

  • il divieto assoluto alla distribuzione di utili e dunque alla remunerazione del capitale raccolto è in contraddizione con l’obiettivo di attirare investimenti verso l’impresa sociale. Nessun investitore è interessato ad allocare le proprie risorse (grandi o piccole che siano) in un veicolo da cui non trarrà mai alcun ritorno economico. Anche per questo, nessuna società di capitale (srl e spa) si è trasformata in impresa sociale. Invece, si sono registrate sperimentazioni interessanti che hanno portato ad ulteriori ibridazioni (srl “low profit”), a conferma che è diffuso il bisogno di trovare formule alternative a quelle esistenti;
  • la mancanza di un regime fiscale di favore (come per le Onlus e gli enti non commerciali) non attira le organizzazioni non profit che svolgono attività commerciali e non incentiva le coop sociali ad ottenere la qualifica di “Impresa Sociale”

Appare evidente che per rendere la forma dell’impresa sociale attrattiva per le organizzazioni attive nel sociale siano necessarie alcune riforme.

Da un lato dunque, l’emendamento ci sembra andare nella direzione giusta (allentamento dei vincoli alla distribuzione degli utili) per offrire la possibilità alle società di attrarre capitali privati. Questo lo andiamo dicendo da tempo e restiamo convinti di questa opportunità. Tuttavia la proposta di riforma è parziale, in quanto limita la distribuzione a imprese private e Amministrazioni pubbliche azioniste e non consente la distribuzione degli utili ai soci persone fisiche – limitazione di cui peraltro non si capisce il motivo e che si presta, invece, a dubbi di costituzionalità.

Dall’altro, invece, non offre alle organizzazioni non profit commerciali (in caso fossero riconosciute come Imprese Sociali ex d.lgs. 155) la possibilità di raccogliere capitali e distribuire utili se pur entro certi limiti, come possono fare le coop sociali. Le coop sociali sono infatti Onlus di diritto e in caso Imprese sociali che possono distribuire utili ai soci se pur entro limiti stabiliti (art. 2514 del c.c.). Il fatto che vengano escluse dall’emendamento è coerente con il fatto che sono Onlus (e come tali non possono generare un lucro soggettivo) e che comunque hanno già la possibilità di remunerare i soci e soci sovventori. Il punto è però di non creare una discriminazione, facendo convergere quanto più possibile il cap alla distribuzione previsto per le coop sociali a quello previsto dall’emendamento le società di capitali (srl, spa).

Inoltre, la proposta non prevede alcun regime fiscale di favore come per le Onlus o la disciplina di altri strumenti di finanziamento ad hoc per tutte le organizzazione non strutturate come società.

Tutto ciò detto, e fatte salve le riserve sul metodo, complessivamente crediamo che l’emendamento in discussione sia una novità da salutare con spirito positivo. Certo, a voler fare i benaltristi (quelli che comunque “ci vuole ben altro …”), si potrebbero fare mille considerazioni su come si sarebbe dovuto procedere fin dall’inizio. Ma le cose sono andate in altro modo, e tutti ci dobbiamo confrontare con una realtà che, ben lungi dall’essere ideale, deve essere migliorata giorno dopo giorno, seguendo percorsi tortuosi e spesso contradittori. Alla fine, però, è nella realtà imperfetta che succedono le cose (tra le quali, per esempio, le imprese sociali di fatto) e non in un mondo ideale che non c’è.

*pubblicato su: Avanzi il 14 dicembre 2012

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