I soldati occidentali non mettevano piede in Medio Oriente dalla Guerra di Suez. È successo di nuovo qualche giorno fa, quando Germania e Usa, sotto l’ombrello della Nato, sono arrivati al confine tra Siria e Turchia per posizionare le batterie di missili Patriot che saranno l’ombrello strategico di Ankara contro il lancio di missili a corto e medio raggio che partono dalla Siria.
Non c’è dubbio che il conflitto siriano è oggi in cima alle preoccupazioni della comunità internazionale. Per il numero di vittime civili che sta facendo, senz’altro. Ma anche per le implicazioni geopolitiche che il conflitto avrà sui nuovi equilibri mediorientali. Per adesso, la volontà di schiacciare la rivolta da parte delle truppe rimaste fedeli ad Assad, con il supporto delle forze speciali iraniane, è determinata dalla certezza che in Siria non ci sarà nessun intervento internazionale. Tutte le cancellerie sanno – o temono – che l’implosione del regime siriano avrebbe effetti di destabilizzazione su tutto il Medio Oriente. A differenza della Libia, infatti, la Siria non è isolata. Essa è anzi la cerniera strategica delle proiezione di potenza iraniana verso il Mediterraneo e l’avamposto per il tentativo del blocco sunnita – guidato da Arabia Saudita e Qatar – per contenere la mezzaluna sciita. Sempre a differenza della Libia, la rivolta è frammentata non solo geograficamente ma soprattutto lungo faglie confessionali. I componenti del Consiglio nazionale siriano sono per lo più esuli con scarsi contatti con gli insorti sul campo. E qui sta la principale difficoltà di analisi e interpretazione dei fatti siriani che si perdono nella “nebbia della guerra”.
Chi combatte veramente in Siria? Quali sono gli interlocutori più affidabili per una possibile transizione nel dopo-Assad? Secondo le fonti di intelligence tedesche solo il 5% dei rivoltosi è siriano. Il resto proviene da gruppi armati, spesso a forte matrice religiosa, addestratisi ormai in vari campi di battaglia, dall’Iraq all’Afghanistan fino alla Libia. Il timore degli Usa e di molti europei è che aiutando la rivolta, fornendo armi e munizioni, si aiuti in realtà un fronte jihadista aggressivo e potenzialmente pericoloso. Un pericolo ritenuto almeno pari alla minaccia di Assad di usare le armi chimiche, le cui riserve sono state spostate nelle scorse settimane dai pretoriani del regime.
Quello siriano è un gioco regionale ma è anche un Great Game globale. Russia e Cina appoggiano Assad e il suo tentativo di soffocare la rivolta. Anche il governo iracheno dello sciita al-Maliki lo sostiene, benché in modo più sfumato. Lo fa in odio ai sunniti siriani, legati a quelli iracheni, e anche verso la Turchia. Ankara ha infatti concesso asilo politico al vicepresidente iracheno condannato a morte per terrorismo. Tra l’Iraq e la Siria esiste una frattura storica, quella tra Baghdad e Damasco, per una sorta di primazia politica e culturale. Era così anche ai tempi del Ba’ath, quando il governo siriano decise addirittura la creazione di una Repubblica Araba Unita con l’Egitto pur di creare un forte contrappeso all’Iraq.
Non è però l’unica faglia regionale quella tra le due capitali della sunna. I curdi iracheni ad esempio appoggiano i curdi siriani, nella prospettiva di un possibile futuro stato curdo dall’Anatolia del sud ai pozzi di petrolio di Kirkuk. I palestinesi sono invece molto divisi. L’ufficio politico di Hamas ha abbandonato negli scorsi Damasco per trasferirsi in Turchia. I palestinesi rifugiati da decenni in Siria – circa mezzo milione – sono divisi al loro interno tra chi esprime gratitudine all’élite alawita di Assad per averli ospitati e chi invece appoggia la prospettiva di una Siria a maggioranza sunnita.
Come ogni crisi internazionale, anche quella siriana oscilla tra la soluzione militare e quella politica. Per adesso questa seconda prevale, nella misura in cui la frammentazione del fronte delle opposizioni, il supporto iraniano ad Assad e il pericolo che i jihadisti si impadroniscano di troppe armi e soprattutto di quelle chimiche lascia il fronte internazionale in una posizione di assoluta ambiguità.
Di certo non appare semplice immaginare un salvacondotto per Assad e i suoi familiari, almeno stando alle dichiarazioni del raìss di Damasco che ha dichiarato di voler vivere e morire in patria. Sta di fatto che la scorsa settimana alcuni emissari siriani hanno fatto il giro del Sud America per raccogliere la disponibilità dei governi ad ospitare il presidente e i suoi familiari, lasciando il paese ad una transizione politica.
Delle due l’una: o si accelera il supporto militare al fronte delle opposizioni, dando una spallata definitiva al presidio di Assad su una parte ancora maggioritaria del Paese, oppure si preme per una sua uscita soft, macchiata dalle enormi sofferenze già inflitte alle popolazioni civili ma prevenendo il rischi che nuovi massacri si ripetano in una Siria ormai allo stremo delle forze. Il rischio altrimenti non è solo quello di una guerra infinita ma anche della creazione di sacche di presidio territoriale e di conflittualità perpetua tra fazioni e gruppi armati. Assad potrebbe ad esempio chiudersi a Damasco e dintorni, facendo nascere una sorta di “villayet alawita”, circondato da province praticamente autonome. Non passerebbe molto tempo e il caos raggiungerebbe anche il Libano e di lì il resto del Levante.
L’attesa, quindi, semplicemente non è un’opzione.