Nel momento della sconfitta, Renzi diventa Re

Nel momento della sconfitta, Renzi diventa Re

Se è la sconfitta a dare piena consapevolezza di sé. Se è la sconfitta, anche cocente, persino superiore ai pessimismi del momento, a restituire identità completa e orgoglio a un’intera generazione. Se è la sconfitta a portare l’umanità che mancava a un trentasettenne che stava compiendo l’impresa della vita e che si è dovuto fermare all’ultimo miglio per manifesta inferiorità politica (che comprende l’apparato, il senso di rassicurazione, lo stare perfettamente nel proprio corpo, l’evidente e voluta ingenuità di bastare a se stesso). Se è la sconfitta a produrre tutte queste conseguenze, allora è possibile ascoltare nel momento dell’arrivederci (dell’addio?) di Matteo Renzi il più solenne elogio dell’anti-retorica che la storia moderna ricordi. Un quarto d’ora davanti a un microfono da incorniciare, ricordandolo come il capolavoro dell’artista. Il suo discorso del Re.

Ha il sapore del paradosso anche un po’ amaro sottolineare come il momento più alto di Renzi sia stato l’ultimo, in cui ricordare le ferite che resteranno aperte (Cayman e l’accusa di violare le regole) ma solo come tributo inevitabile a uno scontro che ha visto contrapposte persone molto diverse tra loro. Come un pescatore sfibrato da una lotta infinita col suo mare, il sindaco ha tirato in secco le reti per un’ultima volta e non ci ha trovato attaccato nulla. In quel momento, ha richiamato tutta la serenità e l’equilibrio di cui disponeva e che lo hanno mostrato, anche a chi non ne era affascinato, come un uomo finalmente maturo, si potrebbe dire splendidamente vecchio e saggio nella sua giovanissima età, se ciò non rappresentasse nel gergo dei renziani un’offesa da lavare quasi nel sangue.

Ma è proprio per quella forza illuminata, uscita nel momento estremo del doloroso distacco dalla competizione, per cui non possiamo non dirci renziani, sapendo che è esattamente dalla sconfitta (e dalla sua elaborazione) che nasce l’idea rigenerativa dell’uomo. Se è possibile – e abbiamo visto che è possibile – Matteo Renzi ha perso da autentico impolitico, non di sinistra e nemmeno di destra e figuriamoci di centro (pensando a quel pesce lesso di Casini).

In realtà, è stato l’ultimo atto della sua sconfitta a essere veramente scandaloso, a capovolgere l’attendismo secolare che avvolge sempre tutti di insopportabile democristianitudine, a mostrare i segni rivoluzionari di un nuovo modo di comunicare. Renzi ha gettato alle ortiche l’impianto storico-sportivo che l’importante sia partecipare, ha illustrato a se stesso, prima ancora che ai suoi, il realismo magico della sconfitta non consolatoria, ha trasferito in tutti i suoi elettori l’orgoglio di «fare una cosa» per l’unico obiettivo per il quale era nata e non per i suoi eventuali, interessati, ricaschi.

Ha certificato – finalmente! – che del maiale si possono (e si devono) buttare via un sacco di cose.

Gli resta però un enorme peso sulla coscienza, che il tempo della sconfitta semmai acuirà e non lenirà: quel senso di responsabilità nei confronti del quaranta per cento che lo ha votato, sul momento scaricato abilmente sulle spalle di Bersani, sapendo bene che il segretario non potrà farsene carico secondo gli autentici dettami di casa Renzi. Ogni sera, prima che il sonno del giusto abbia il sopravvento, tornerà inesorabile. Scorreranno, come in un film, sorrisi, bandiere, entusiasmi, passioni, abbracci, tormenti, inquietudini. Sarà difficile liberarsene, come spettri dell’anima che non vogliono abbandonare l’uomo che li ha generati.  

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