Non solo open data, anche la scienza muove verso l’“open source”

Non solo open data, anche la scienza muove verso l’“open source”

Il racconto della scienza in Italia difficilmente può prescindere dalle difficoltà economiche che università e enti di ricerca affrontano per svolgere le proprie attività.

Solo quest’estate un’iniziativa del ministro Profumo che, in pieno accordo con la spending review del governo Monti cercava di ottimizzare le risorse economiche a disposizione con un parziale riordino degli enti di ricerca, ha suscitato reazioni accese. Ma nonostante si senta ripetere che solo con un serio investimento in scienza e ricerca sia possibile fermare il declino e aprirsi davvero alla società della conoscenza, è praticamente cronica l’insufficienza di risorse. Posto che il sistema della ricerca italiana ha problemi strutturali che potranno essere risolti solo in una prospettiva medio-lunga, l’innovazione che negli anni si è sviluppata su Internet e ha modificato il modo di lavorare di interi settori potrebbe riservare ancora dei margini per il mondo della ricerca scientifica.

È il caso di quel movimento sempre più diffuso tra i ricercatori che va sotto il nome di open source science. Mutuando aspetti della filosofia che dagli anni Novanta ha permeato le community di programmatori che hanno creato software gratuiti, come il sistema operativo Linux o la suite di programmi Open Office, anche nel mondo della ricerca da qualche tempo c’è chi propone approcci open per ottimizzare le risorse e massimizzare la possibilità di accesso ai risultati.

Lo ha capito già da qualche anno Matt Todd, biochimico dell’Università di Sidney e tra gli iniziatori di un progetto di ricerca per un farmaco contro la malaria. Si chiama Open Source Drug Discovery malaria e «alcuni scienziati di altissimo livello, magari sotto contratto con grosse aziende farmaceutiche, hanno deciso di contribuire gratuitamente durante le loro vacanze», racconta Todd, sottolineando come alcuni professionisti sarebbero stati off limits se la ricerca fosse stata condotta nel modo tradizionale. Non si tratta tanto di risparmiare direttamente denaro, ma di massimizzare quello che si può ricavare da quello a dispozione. «Se ho bisogno del contributo del maggior esperto di un determinato settore – sottolinea Todd – posso chiedere al migliore al mondo di darmi una mano. Completamente gratis».

Finora il progetto OSDD malaria ha funzionato perché la maggior parte della ricerca si è potuta fare con qualche computer per la simulazione delle molecole e un lavoro di laboratorio non troppo costoso. «Quando dovremo passare ai test clinici, avremo bisogno di molti più soldi. Motivo per cui stiamo cercando qualche fondazione che sia interessata a finanziarci», spiega Todd. Le farmaceutiche hanno tollerato, quando non vi hanno addirittura collaborato, questo progetto perché si occupa di un settore in cui non si prevedono profitti. Ma quante altre malattie che vengono normalmente tralasciate si potrebbero studiare con un approccio open? «Credo che sia uno dei settori in cui università e enti pubblici di ricerca dovrebbero concentrare i propri sforzi – conclude Todd-  perché con poche risorse, contando sul contributo gratuito di molti, si possono ottenere risultati impensabili».

Un altro settore in cui l’approccio open permette di ottimizzare le risorse economiche è quello dell’editoria scientifica. Le riviste specializzate sono uno dei cardini del sistema di comunicazione della comunità scientifica perché permettono la pubblicazione solo dopo un attento esame dell’accuratezza dei risultati sperimentali. Qualcuno, però, pensa che questo sistema editoriale sia un retaggio del passato pre-Internet e che oggi sia un costo per la ricerca non sempre giustificato.

Il passaggio a un sistema di pubblicazione altrettanto serio e valido, ma meno oneroso perché basato sull’open access, è il centro della proposta di Tim Gowers, matematico di Cambridge e medaglia Fields (l’equivalente del Nobel nel campo della matematica), e dei 13 mila ricercatori che hanno firmato la sua petizione. Secondo Gowers un editore come Elsevier, uno dei colossi mondiali dell’editoria scientifica che nel 2010 ha fatto oltre 700 milioni di sterline di profitti, trae enormi guadagni economici richiedendo gratuitamente la collaborazione dei ricercatori, utilizzati come revisori degli articoli sottoposti alle varie riviste.

Inoltre gli abbonamenti che le biblioteche pagano sono molto costosi e, sempre secondo i sottoscrittori della petizione, Elsevier in ultima analisi rivende agli enti di ricerca i risultati scientifici che loro stessi hanno prodotto. Soluzione? Pubblicare su riviste open access che permettono a chiunque di accedere gratuitamente a tutti gli articoli e ai risultati pubblicati, così da risparmiare milioni che ogni anno se ne vanno per mantenere gli abbonamenti delle biblioteche. In realtà, come mostra una ricerca condotta recentemente in Gran Bretagna, il passaggio da un sistema misto come quello di oggi, in cui convivono realtà “tradizionali” e realtà open sia nell’editoria che nella pratica scientifica di tutti i giorni, non è indolore dal punto di vista economico. Il passaggio del sistema UK a un approccio open potrebbe far raddoppiare per alcuni anni i costi del sistema.

Sul lungo periodo, però, presenterebbe i vantaggi di una ottimizzazione delle risorse disponibili. Ma soprattutto metterebbe a disposizione di chiunque lo voglia una miniera enorme di informazioni che in un’era pre-open erano accessibili solo a una ristretta cerchia di addetti ai lavori. La liberazione delle informazioni, come dicono gli attivisti dell’open access, potrebbe diventare una nuova valvola per generare valore e ricchezza.

Già oggi, per esempio, ci sono start up che sono nate per fare business nella ricerca open. Come Labfolder, un’azienda nata quest’estate che ha messo in piedi una piattaforma informatica per la gestione dei diari di laboratorio in formato open. «L’utilizzo della piattaforma è personalizzabile e gratuito – spiega uno dei tre fondatori, Florian Hauer – ma ci proponiamo di trarre profitto dalla fornitura di servizi specifici», come il data mining. La diffusione di formati aperti per i diari di laboratorio, infatti, permette di analizzare grandi quantità di dati che possono dare indicazioni importanti su quale direzione far prendere a una ricerca. Si torna, quindi, all’idea dell’ottimizzazione delle risorse e a una loro miglior gestione.

Per risolvere i problemi del sistema della ricerca italiano quasi sicuramente non basterà una repentina sterzata verso l’open source e l’open access, dal momento che non sono applicabili in tutti i contesti di ricerca. Ma se è vero che non rappresentano un effettivo risparmio, il pensare in modo differente permette di vedere possibilità di gestione nuove e diverse, talvolta più efficaci. Qualcuno, come il Reserach Council britannico ha già preso una decisione, forse più politica che economica, di andare decisamente in questo senso. Ma se davvero la liberazione dell’informazione e un’apertura dell’accesso possono rappresentare un’occasione per nuovo business innovativo, perché non provare a prenderli in considerazione dove è possibile?

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