(Quanto segue è tratto dalla conferenza tenuta presso la Cooper Union for the Advancement of Science and Art di New York all’inizio di quest’anno. Scritto prima delle ultime elezioni, si rivolge in parte al vincitore, chiunque egli sia)
Gli americani sono stati a lungo consumatori desiderosi e proprietari di casa. Ma non c’è dubbio che abbiano collettivamente esagerato negli anni precedenti alla crisi finanziaria ed economica del 2008. Il tasso di risparmio personale è arrivato vicino allo zero. L’indebitamento ipotecario è cresciuto a nuove (e, in definitiva insostenibili) altezze.
Con tutto ciò che si è verificato, il reddito reale delle famiglie medie americane è aumentato di poco, se non nulla. Questo non dovrebbe accadere in un’economia produttiva in crescita. Elevati consumi ottenuti a spese del risparmio e l’aumento dell’indebitamento non potevano essere sostenuti a fronte di uno stallo del reddito del “99 per cento”.
All’inizio di questo secolo, in realtà avevamo un bilancio federale in pareggio. Poi il fallimento nell’uguagliare entrate e maggiori spese per difesa e spesa sanitaria non solo ha eliminato in maniera inesorabile il surplus ma ha portato il più grande deficit in tempo di pace nella storia.
Con un piccolo o nessun risparmio privato, dalla metà del decennio facevamo affidamento sui prestiti dall’estero per finanziare sia le spese pubbliche sia quelle private. Cina, Giappone e altri paesi emergenti erano completamente felici di dare ai nostri consumatori le merci che desideravano e di ottenere come pagamento dollari. Essi hanno continuato, anche se i tassi di interesse sul dollaro scendevano verso lo zero. La nostra dipendenza da finanziamenti esterni ha raggiunto livelli sui 500-600 miliardi di dollari l’anno, il 5% o più del nostro Pil, che era ben al di là di qualsiasi modello storico. Fortunatamente, come nazione, e come governo, siamo stati in grado di continuare a ottenere prestiti all’estero, proprio durante la recessione. Ma possiamo contare sul farlo a tempo indeterminato?
Certo che no.
Guardiamo a stessi, con un po’ di giustizia, come un grande paese, il più forte e più ricco in un mondo mutevole e inquieto, un luogo di stabilità e di leadership. Ma ora il nostro paese è impantanato nei debiti. È dipendente da grossi flussi continui di capitali dall’estero, senza un gran risparmio personale e con una crescita lenta e un reddito delle famiglie piatto. Queste non sono le caratteristiche di un paese che vuole ed è in grado di prolungare la sua leadership globale.
Abbiamo bisogno di riequilibrare l’economia – per ottenere investimenti domestici più produttivi e più risparmio personale – e di risolvere l’enorme deficit federale. Questo è molto più difficile con un alto tasso di disoccupazione e con una dipendenza da programmi di incentivi. Qua e là, emergono alcuni segnali incoraggianti, tra cui qualche taglio alla spesa. Ma, come con la riforma finanziaria, l’impresa è incompleta. In realtà, è appena iniziata. E tutto il mondo lo sa.
Questo è lo sfondo. Il mio punto qui è che dobbiamo guardare avanti. Dove si trova il terreno solido su cui costruire, per ripristinare un chiaro senso di interesse nazionale e di propositi nazionali, per ripristinare la fiducia nel processo politico e nel governo stesso? Non abbiamo semplicemente un problema finanziario, un problema di equilibrio economico e di struttura: abbiamo un problema più importante sull’efficacia della governance. Quasi ogni giorno leggiamo sondaggi sulla popolarità del presidente, o sugli alti e i bassi dei contendenti repubblicani durante le recenti elezioni.
Il sondaggio che mi preoccupa è diverso, e molto più impegnativo. «Ti fidi che il tuo governo faccia per lo più la cosa giusta?» Questa domanda è stata fatta regolarmente per decenni dagli esperti di sondaggi. In questi giorni solo il 20% o anche meno ha detto di sì. In altre parole, quattro americani su cinque istintivamente non hanno fiducia che il nostro governo sappia fare la “cosa giusta” anche per la metà del tempo. Questa non è una piattaforma su cui si può sostenere una grande democrazia.
So che siamo stati testimoni di un ampio dibattito ideologico. Molto di questo è al di là delle preoccupazioni di politica finanziaria o economica. Ma so anche che la divisione politica è troppo spesso vista come «grande governo» contro «piccolo governo». Tale particolare argomento può essere, probabilmente dovrebbe essere, senza fine. Dopo tutto, è iniziato con l’inizio della repubblica , Jefferson contro Hamilton, e così via. Ma possiamo essere d’accordo su alcuni punti base di partenza?
Il governo è, dopo tutto, necessario. Quello che vogliamo è un governo efficace, degno di una fiducia istintiva. Io sono da tempo preoccupato che i nostri particolari governi, grandi o piccoli, federali, statali e locali, non siano coerentemente amministrati e gestiti così come dovrebbero essere, e potrebbero essere. Ho trascorso la maggior parte della mia vita adulta nel e intorno al servizio pubblico. So che ci sono agenzie governative e che sono ben gestite, che rispondono alle loro responsabilità vitali pubbliche, ed efficaci.
Sappiamo tutti che alcune non lo sono state: ripensiamo a New Orleans e Katrina o più recentemente alla fuoriuscita di petrolio del Golfo. Le agenzie federali con la responsabilità di anticipare e affrontare tali emergenze erano di fatto assenti ingiustificati. Per fortuna che non è avvenuto nel caso del recente uragano Sandy. Ma ci sono stati errori continuati nella programmazione locale e nella preparazione agli uragani di grandi dimensioni. Dall’altra parte, ci sono alcune immense burocrazie, – l’enorme apparato della difesa per esempio – che ci stupiscono e rassicurano nel momento del bisogno, ma che hanno anche troppe sacche di rendimento debole e perfino di corruzione.
A mio avviso, le nostre università con le importanti scuole di “Public Affairs” e “Public Policy” si sono concentrate troppo sui dibattiti politici di alto livello politico, cioè, ciò che dovrebbe essere fatto, e troppo poco su ciò che, in pratica, si può fare.
Grandi policy e una grande strategia non possono fare molto senza le risorse e le competenze necessarie per l’implementazione e la gestione. Ho anche la sensazione che sono le istanze di inefficace gestione – costi elevati, assenza di obiettivi chiari e di misurazione dei risultati, scarsi incentivi- che contribuiscono alla mancanza di fiducia che ormai è così evidente e così profonda. Preoccupato come posso essere su queste vecchie idee di buona ed efficace amministrazione, la grande sfida di oggi è più immediata e critica.
Possiamo trovare una base intellettuale e politica per un’azione concertata sulle questioni economiche e finanziarie incompiute che ho accennato in precedenza? Senza una risposta positiva a questa domanda ogni nuova amministrazione e qualsiasi nuovo Congresso, rosso, blu, o una miscela, sarà nei guai. E questo problema non si limiterà a Washington, DC. Si tratta di questioni di politica di bilancio – spesa e tassazione – che portano la preoccupazione astratta al regno del processo decisionale. Per quanto difficile da contemplare, oggi le entrate federali coprono poco più del 60% delle spese.
Questo è qualcosa che storicamente è accaduto solo nel corso di una grande guerra, mai in relativa pace, o anche in guerre limitate. La spesa è salita ben al di sopra dei livelli del passato – ad un certo punto passando dal precedente 20% o giù di lì del Pil a circa il 25 per cento. Nel bel mezzo della recessione, i ricavi sono scesi al 15% del Pil. Anche con la ripresa economica, i deficit rimanenti saranno molto più grandi di quanto li possiamo finanziare con i nostri risparmi personali. L’esperienza suggerisce chiaramente che l’attuale sistema di tasse personali e societarie – pieno di crediti speciali, esenzioni, scappatoie, ed evasione, ha raggiunto limiti pratici. Siamo arrivati a fidarci delle imposte sui salari per finanziare le spese obbligatorie, e anche esse potrebbero avvicinarsi troppo ai limiti economici e politici.
Ciò è stato ampiamente conosciuto e compreso. Abbiamo avuto commissioni, ufficiali e non, per valutare le prospettive con conclusioni generalmente coerenti. Le loro relazioni confermano che ci vorrano misure molto forti – che comprendono risparmi nei diritti acquisiti, e in difesa, nonché le spese civili, per ottenere una spesa abbassata al 21% del Pil. Date le esigenze di una popolazione che invecchia e l’aumento dei costi sanitari, ci vorranno anni per raggiungere tale livello e ancora una maggiore fatica per sostenerlo.
Sul versante delle entrate, non c’è molto a supporto della fiducia che un cigolante sistema delle entrate fortemente dipendente in materia di tassazione del reddito possa mantenere il suo contributo, tanto meno sostenere un aumento significativo.
Quindi, anche se le spese potrebbero essere ridotte al 21 per cento (come la National Commission on Fiscal Responsibility and Reform ritiene possibile prima del 2035!), un certo incremento significativo delle entrate sarà necessario per eliminare il deficit.
L’implicazione è ovvia. Grandi cambiamenti nella politica di bilancio sono necessari. Hanno bisogno di essere strutturali. Hanno bisogno di essere discussi. E da un punto di vista pratico, gli impegni di bilancio necessari dovranno essere ampliati nel corso degli anni – anni di gran lunga al di là di un singolo termine presidenziale. Allora, su cosa possiamo costruire? Vorrei suggerire che per tutto l’orientamento del panorama politico, c’è un nucleo di comprensione comune che dovrebbe fornire una base per la negoziazione costruttiva. In maniera importante:
nel corso del tempo abbiamo bisogno di tagliare la spesa di alcune centinaia di miliardi di dollari l’anno (e una parte potrebbe e dovrebbe essere effettuata attraverso riforme amministrative). Abbiamo bisogno di intraprendere una riforma fiscale, personale e societaria, in modo che possa sia generare entrate aggiuntive sia essere più relata a consumi e investimenti. Abbiamo bisogno di esaminare come le politiche federali possano supportare le infrastrutture più necessarie e rivedere anche le responsabilità per Medicaid, due capitoli che coinvolgono gli stati. Molti di questi sono già così fortemente compressi che non possono avvicinarsi a soddisfare gli impegni esistenti. Abbiamo bisogno di esaminare in che modo le tasse e le decisioni di spesa sostengono il desiderio di indipendenza energetica, la minaccia del riscaldamento globale, e l’ambiente. E, naturalmente, abbiamo bisogno di rivedere i due grandi programmi di diritto, Social Security e Medicare, alla luce del loro deficit incombente e delle pressioni demografiche inflessibili
Impossibile da fare? La questione dovrebbe piuttosto essere, possiamo farne a meno? Meglio definire un quadro di grandi dimensioni che inizi accettando ciò che c’è di inadeguato. La cosa più importante è che gli americani devono arrivare a capire cosa ci sia in gioco.
Forse sono poco realistico nella mia ricerca di un terreno comune tra gli interessi politici in gioco. Tuttavia, l’urgenza di un’azione convincente sul fronte economico e fiscale non consente la fine della ricerca. In questo sforzo, posso proporre un semplice test per la volontà delle due parti di lavorare insieme in un importante settore procedurale senza compromettere le loro differenze ideologiche, sociali, e politici. È ampiamente noto che il processo costituzionale per la nomina e la conferma dei funzionari politici di alto livello del governo federale è diventato pericolosamente distorto, inibendo la leadership rapida ed efficace e la gestione di qualsiasi nuova amministrazione.
Il processo di nomina per i 500 o giù di lì incaricati presidenziali, soggetti a nomina, è diventato un percorso ad ostacoli, con un interminabile doppio controllo delle finanze, degli affari, e della vita personale dei potenziali nominati, allo stesso modo dalle amministrazioni e dal Congresso. Poi un potenziale candidato può essere lasciato in sospeso per mesi, in alcuni casi per un anno o più, in attesa del “consenso” senatoriale per una nomina presidenziale.
I ritardi e rischi per un uomo o una donna, capace e ben rispettato, disposti ad accettare la sfida del servizio pubblico sono scoraggianti. In questi giorni troppe persone competenti e disponibili, anche quelle desiderosi di dare un contributo, rifiutano semplicemente di essere considerati o di aspettare l’inizio del processo. La conseguenza è che un nuovo presidente o un rieletto viene lasciato senza i membri chiave della sua squadra per molti mesi, a volte per un anno o più. Egli è paralizzato nello sviluppo, nella difesa, e nella gestione delle sue politiche.
Nel corso degli anni, e ancora oggi, un certo numero di commissioni e dirigenti esperti hanno proposto metodi per accelerare il processo. Tra loro ci sono le azioni per ridurre il sovrapporsi delle procedure d’esame, e soprattutto per ridurre il numero degli uffici che richiedono la conferma del Senato. Ma nel corso del tempo, il processo di nomina è peggiorato anche se le necessità sono diventate più pressanti. Ostacoli di grandi dimensioni restano a preoccupare le esigenze di base di ogni nuovo presidente eletto, del suo partito, e non ultimo del suo Paese.
Possiamo, ad esempio, ragionare sul semplice fatto che ci sarà un intervallo di tempo prima che il presidente eletto ottenga la carica? È nell’interesse sia del candidato vincitore sia dei suoi colleghi di partito al Senato di cercare un «patto reciproco di disarmo» rispetto alle nuove nomine dell’esecutivo. In particolare, supponiamo che il candidato vincitore e leader del partito al Senato si tengano per mano e si uniscano in un accordo limitato ma importante, che dovrebbe includere:
– Stabilire un modo comune di esaminare i requisiti e le ricerche sugli eventuali incaricati.
– La garanzia che la competente commissione del Senato agisca in non più di, diciamo, di quattro settimane dal momento di una nomina presidenziale, e che una commissione approvi il candidato che sarebbe prontamente inviato all’intero Senato.
Tale approccio richiede un cambiamento nelle regole del Senato. Senza dubbio, alcuni membri di questo club esclusivo saranno riluttanti a dare per vinto un privilegio esistente. Ma sicuramente impegni solenni da parte dei contendenti presidenziali e dei leader di maggioranza e di minoranza del Senato ad agire insieme nell’interesse pubblico dovrebbero avere un peso pesante, e stabilire un precedente per le elezioni future.
Dopo tutto, il problema è evidente. […] Troppo è in gioco per questo atteggiamento politico di parte. Nel tempo, non si favorisce né l’uno né l’altro lato. Ciò non compromette nessuna posizione sostanziale delle parti. Non avrebbero senso un po’ di buone maniere e cortesia senatoriale nelle procedure di conferma per ogni neo eletto presidente? Alla fine, questa è una questione dello stesso Senato che dovrà prendere in considerazione e decidere, ma sicuramente il tempo per una decisione chiara è adesso.
Nel frattempo, il processo di nomina gravemente compromesso è solo una parte della faziosità sempre più amara che sembra avvelenare la nostra vita politica. Ma non è anche il momento di fare un passo indietro e sviluppare elementi importanti in un terreno comune?
I nostri problemi economici e politici, se non risolti, costituiranno anche una grave minaccia. Non è solo la nostra prosperità economica che è in pericolo, ma la nostra sicurezza nazionale e la nostra capacità di svolgere un ruolo costruttivo in un mondo che cambia.
Ho piena fiducia che il nostro futuro finanziario possa essere sicuro, e i nostri problemi di bilancio possono essere risolti. È anche evidente che tali obiettivi non possano essere raggiunti senza un impegno comune a costruire delle aree di accordo. In quale altro modo possiamo pretendere di essere un modello di una società democratica aperta, non solo per i cittadini ma anche per quelle nazioni che cercano la propria libertà?
Lincoln ha concluso il suo discorso alla Cooper Union nel 1860 con queste commoventi parole: «il bene crea la forza».
«Il bene» oggi è trovare un consenso pratico su come raggiungere una duratura riforma finanziaria e fiscale. Questo è il percorso – l’unico percorso – per ripristinare agli occhi di tutti la nostra “forza” economica. Solo allora, in buona coscienza si può ragionevolmente contestare tutte le altre questioni sociali, politiche e ideologiche che oggi preoccupano così tanto la nostra vita politica.
L’articolo è stato originariamente pubblicato sulla New York Review of Books