«Sono celiaco», ma i camerieri non ti guardano più come un marziano mais-dipendente. Anzi, l’intolleranza al glutine la porti a tavola con orgoglio, e quel tuo panino semi-plastificato che prima nascondevi come un ladro, ora fa persino un po’ chic. Perché la celiachia ha preso coscienza delle sue statistiche da male cronico delle società occidentali, e ora deve fare i conti con l’esplosione di un’economia distorta: il cibo senza glutine è salatissimo, infilato com’è in una catena di assistenzialismo, prezzi in bolla e semi-monopoli.
Le stime dicono che un italiano su cento non potrebbe mangiare pasta, pane, pizza, biscotti. Insomma tutti gli alimenti che contengono glutine, prodotti ad esempio con le farine di grano, orzo o segale. Pena svariate patologie, dal malassorbimento dovuto all’abbassamento dei villi intestinali fino a scompensi del sistema immunitario.
Sono 122mila i casi accertati ogni anno, ma sono 500mila i “sommersi”. Ci si nasce, celiaci. Ma ci si diventa, anche. «Ogni anno sono 10mila le nuove diagnosi fra adulti e anziani», fa notare Alessio Fasano, direttore dell’University of Maryland’s Mucosal Biology Research Center e del Celiac Research Center, ennesima eccellenza mondiale guidata da un cervello italiano.
Da noi, per legge, è una “malattia sociale”. I prodotti gluten-free sono considerati alimenti dietoterapeutici e come tali sono sovvenzionati dallo Stato, che provvede a erogarne un quantitativo mensile gratis tramite il Servizio sanitario nazionale e il circuito farmaceutico. Un unicum in Europa, a eccezione di Malta e Grecia, che ha mandato letteralmente in panne il mercato. Le farmacie valgono i quattro quinti del valore totale, e per le loro casse passano 180 milioni di euro all’anno, con una crescita costante dal 2% all’8% sull’anno precedente. E poi c’è il business delle false diagnosi, che grazie a test più o meno efficaci (diversi ad esempio dalla canonica ricerca degli anticorpi anti-transglutaminasi nel sangue, o dalla gastroscopia) avrebbe sfornato finora circa 3 milioni di nuovi celiaci non validati scientificamente, che investono in alimenti speciali 35 milioni l’anno.
Il ministero della Salute, nel 2006, ha fissato un contributo di sostegno alimentare che ammonta a 140 euro per gli uomini, 99 per le donne e a cifre minori per i bambini (ma alcune Regioni lo integrano per garantire la parità tra i sessi). Il punto però è che così il cliente finale non è il celiaco, ma lo Stato. E il risultato è una strana domanda “anelastica” rispetto ai prezzi: all’aumentare del numero delle diagnosi, e quindi dei consumatori celiaci, il prezzo dei prodotti invece di diminuire addirittura sale. Con buona pace delle leggi del mercato e della libera concorrenza: per quale motivo il produttore dovrebbe voler sgonfiare i prezzi se il consumatore finale non è minimamente interessato a risparmiare?
Insomma: il celiaco bada al palato, lo Stato paga, e i produttori incassano. E incassano tanto: un chilo di pasta costa in media 10 euro, il pane anche 12 euro, per non parlare dei biscotti che arrivano a 20 euro al chilo, un pacco da 10 merendine si può pagarlo fino a 8 euro. Tanto che i prodotti freschi, fatti al momento nei pochi laboratori dedicati che hanno fiutato le potenzialità del settore, sono addirittura più convenienti.
L’affare è presto diventato un segreto di Pulcinella anche per i ristoranti. Basta guardare gli indici di crescita: a oggi sono più di duemila quelli segnalati sul sito dell’associazione italiana celiachia, e il gluten-free è sbarcato anche negli Autogrill. Il ragionamento è semplice: per ogni cliente celiaco c’è sempre almeno un accompagnatore “normale”, ed ecco che la “malattia sociale” diventa un banale moltiplicatore micro-economico.
Certo, la produzione speciale costa. Il regolamento CE 41 del 2009, in vigore dall’inizio del 2012, prevede che le aziende possano immettere liberamente sul mercato prodotti senza glutine, anche non inseriti nel Registro nazionale dei prodotti dietetici, ma che contengano una quantità di glutine non superiore a 20 milligrammi al chilo, garantendo al contempo l’assenza di ingredienti derivati dai cereali col glutine. C’è, dunque, il prezzo elevato delle materie prime ma anche la prevenzione dai rischi di contaminazione crociata: bisogna organizzare una filiera produttiva “pulita” ed effettuare controlli in tutte le fasi, dalla lavorazione al trasporto. E poi ci sono le certificazioni e la burocrazia.
Poi però uno va all’estero e si accorge che lì le cose funzionano in maniera diversa: gli stessi alimenti si vendono regolarmente al supermercato, magari con linee di produzione apposite, e costano sensibilmente di meno, con differenze fino al 60 per cento. È, evidentemente, il mercato, bellezza.
Anche da noi qualcosa si muove: il decreto Veronesi del 2001 ha di fatto aperto le porte a forme di distribuzione alternative, ma solo da pochi anni il mercato “parallelo” ha cominciato ad intaccare il monopolio farmaceutico: il giro d’affari del gluten-free nella grande distribuzione supera i 15 milioni di euro ed è cresciuto di più del 25% in un solo anno. Un boom vero e proprio, scoppiato anche a dispetto della ricerca che da anni prova a sviluppare un vaccino. Sarebbe la cura definitiva, per la malattia, e anche per il suo mercato “malato”.