“Ho vissuto 7 anni in Corea del Nord: sarà il mercato a salvarla, non gli aiuti”

“Ho vissuto 7 anni in Corea del Nord: sarà il mercato a salvarla, non gli aiuti”

Nessun sensazionalismo né intento polemico. Felix Abt, imprenditore svizzero trapiantato in Asia cerca di presentare in un tweet il contenuto di «A Capitalist in North Korea», resoconto di sette anni trascorsi a Nord del 38esimo parallelo. «Una peculiarità della letteratura sulla Corea del Nord pubblicata negli ultimi anni è la tendenza degli autori a basarsi sulle interviste ai fuggiaschi. La Corea del Nord è stata un posto orribile tra fame e campi di lavoro. Ma questi lavori rappresentano soltanto una parte della società nordcoreana. Ed è pericoloso che spesso non siano verificati», scrive lo stesso Abt sul Global Post e continua: «Per sette anni ho vissuto nel più chiuso dei Paesi comunisti da uomo d’affari e ora che trascorro una vita confortevole in Vietnam ho una serie di aneddoti che contraddicono queste versioni».

Abt guarda alla Corea del Nord in modo apolitico, lo fa con l’occhio dell’uomo d’affari. Contattato da Linkiesta per commentare la missione umanitaria dell’ex governatore del New Mexico, Bill Richarson, e del numero uno di Google, Eric Schmidt a Pyongyang, risponde: «Sarà il business a sostenere il Paese a uscire dalla povertà, non gli aiuti umanitari». Tutto il libro, nota anche Leonid Petrov, coreanista alla University of Sydney, è una sfida per convincere i venture capitalist occidentali della bontà delle opportunità che offre il Paese, nonostante i racconti vadano spesso a sbattere contro i fallimenti.

«Occorre avere un visione ampia. Ho osservato i cambiamenti della società, della cultura e dell’economia nordcoreana negli ultimi dieci anni», spiega l’imprenditore svizzero, «Nelle città ho visto emergere la classe media. Nelle campagne ho visto un numero sempre maggiore di contadini, alcuni dei quali un tempo operai disoccupati delle fabbriche cittadine. Alcuni di questi contadini hanno iniziato a registrare i loro appezzamenti e pagare le tasse. Questo vuol dire che le loro attività “capitaliste” sono considerate in qualche modo legittime. Coltivando privatamente prodotti agricoli hanno contribuito a un maggiore e migliore assortimento nei mercati. Inoltre prodotti nordcoreani di migliore qualità competono con la merce cinese».

Le parole di Abt trovano riscontro nei resoconti del Daily Nk sito (vicino agli esuli coreani) in prima linea nel dare notizie dal paese; denunciare le violazioni dei diritti umani e le lotte interne; raccontare la vita dei nordcoreani e «le oasi di dinamismo in uno scenario che sta cambiando sempre più rapidamente». I mercati, scrive il sito, e soprattutto la merce in vendita, sono il segno di come la dinastia dei Kim non sia riuscita completamente nell’intento, lungo oltre 70 anni, di tenere la popolazione isolata dal mondo esterno. Così, accade che ci si rivolga ai sarti per avere vestiti nello stile di quelli dei protagonisti delle serie sudcoreane, segno questo, tuttavia, che l’industria tessile non soddisfa in qualità le aspettative dei nordcoreani. Anche il K-pop, la musica leggera sudcoreana, è diffusa tra i giovani, pronti a pagare lezioni di danza che, scrive il sito, possono fruttare in un mese all’insegnante il tanto per comprare 10 chili di riso, cioè circa venti volte il salario di un lavoratore la cui vita è considerata confortevole. I commercianti, poi, sono pronti a viaggiare da una provincia all’altra per accontentare i propri clienti a trovare la merce desiderata.

«La vita è diventata più colorata. Le gente si veste meglio, le donne usano cosmetici e abiti alla moda. In giro parlano più spesso con gli stranieri di libri e film. Casalinghe diventate imprenditrici mantengono la famiglia e hanno guadagnato una sorta di indipendenza finanziaria. Ho riscontrato anche un aumento dei divorzi» continua Abt che sottolinea come nel 2012 siano stati permessi un maggior numero di contatti tra gli stranieri e società nordcoreane; queste ultime più propense a presentare proposte d’affari.

Non mancano le difficoltà. Lo scorso settembre fece scalpore la denuncia del gruppo cinese Xiyang, che stracciò un contratto di joint venture nel settore della lavorazione della polvere di ferro mettendo in guardia gli investitori dai rischi che si corrono collaborando con i nordcoreani. «Anche in Cina e Vietnam, quando, negli anni ’80, i Paesi iniziarono ad aprirsi all’estero i fallimenti dei pionieri stranieri furono numerosi. Così accade in Nord Corea: il prezzo da pagare può essere alto, ma quelli che hanno successo possono avere profitti molto sostanziosi», dice l’imprenditore svizzero. C’è inoltre il fattore scambio. Più i nordcoreani hanno opportunità di incontrare turisti, diplomatici, volontari, più entreranno in contatto con idee nuove, mettendole in pratica. Certo, ammette Abt, in questi casi per un cinese è più facile: è percepito diversamente rispetto a un occidentale o, peggio, a un sudcoreano con cui i rapporti saranno più tesi.

Ma il problema c’è:  come nota lo studioso britannico Aidan Foster Carter in un intervento per il Korea Economic Institute, quando si parla di Pyongyang, la parola economia è la grande assente, in particolare nei discorsi dei leader nordcoreani stessi. Agli occhi occidentali il Paese è un pericolo, una minaccia, un problema, molto raramente un’economia. Se se ne parla, lo si fa comunque in termini negativi. Lo stesso vale per la dirigenza, più concentrata sul partito e sull’esercito: si pensi alla policy che di mettere i militari al primo posto, e la coscrizione, che può arrivare a 10 anni.

Non è un caso che una delle prime iniziative di Abt in Corea del Nord fu mettere in piedi la Pyongyang Business School, i cui seminari andarono avanti tra il 2004 e il 2010: non tanto per formare una nuova élite ma, spiega, per migliorare le conoscenze gestionali e permettere ai nordcoreani di competere nel mercato. Un piano che all’inizio trova l’ostilità di settori della dirigenza, timorosi che Abt tessesse trame politiche segrete, usando la scuola come copertura. Si trovò contro, infine, anche le autorità svizzere, spronate da parlamentari contrari a collaborare con una dittatura che viola i diritti fondamentali dei propri cittadini.

Scrive Petrov che Abt sembra riporre fiducia sia in quel processo, secondo lui già in atto, che chiama “riforma”, sia nel giovane leader nordcoreano Kim Jong-un. Questo, continua il coreanista russo, sebbene, a parte le indiscrezioni di ipotetiche aperture, non ci siano ancora riscontri.

Secondo Petrov i vestiti alla moda, i cellulari e le saune non sono cambiamenti fondamentali in un Paese dove l’informazione è censurata, i dissidenti giustiziati e gli spostamenti controllati. Basti soltanto ricordare che, secondo l’ultima rilevazione Unicef, la malnutrizione infantile continua a essere una sfida per il Paese, nonostante qualche passo avanti rispetto al 2009, con oltre 475mila bambini e bambine rachitici, oltre 68mila colpiti da malnutrizione acuta e 10mila da malnutrizione grave. Se una Corea del Nord riformata emergerà sarà un luogo dove la dinastia rivoluzionaria dei Kim non avrà spazio, sostiene Petrov. Tuttavia sottolinea l’importanza del racconto di Abt anche se molti lettori non si troveranno concordi con quanto dice.

Di suo, alla domanda se il regime si potrà evolvere sul modello cinese, vietnamita o birmano, (esempio quest’ultimo tirato spesso in ballo nell’ultimo anno) Abt ricorda come nessuno di questi Paesi all’inizio dell’apertura si sia dovuto confrontare con un Sud rivale che mettesse in discussione il loro modello politico.

«Il processo di riforma sarà più cauto e le riforme porteranno a migliori condizioni di vita. Ma le riforme saranno più incisive senza le sanzioni internazionali», spiega. L’ultima risposta è sull’eventuale riunificazione: «Prima, la Corea del Nord ha bisogno di riforme e di rafforzarsi così da potersi sedere al tavolo dei negoziati. In caso contrario la riunificazione sarà un disastro sia per il Nord sia per il ricco Sud con l’afflusso in massa dei poveri cugini senza esperienza che non potranno diventare altro che manodopera a basso costo». 

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