Fabrizio Corona è stato il suo “cliente” più illustre, quello che gli ha dato la popolarità col processo Vallettopoli, trasmesso in tv con ascolti record, e la sfilata in Procura di bellissime che ha anticipato il Rubygate.
Fuori dall’aula del Tribunale dov’era suo implacabile accusatore, Frank Di Maio parlava di Corona, siciliano come lui, con rabbia e dolcezza: «Fossi bello io come lui… E poi è anche intelligente, potrebbe fare bene quello che vuole, perché si vuole rovinare?».
Era palermitano vero, Frank Di Maio, sempre con un retropensiero non svelato sulla realtà, la capacità d’immaginare scenari alternativi che gli tornava molto utile nel lavoro. La sua scrivania parlava di lui: linda, ordinata, solo un portapenne e, dentro, piccolissima, nascosta, una foto-miniatura della sua bella fidanzata Valeria.
Un pubblico ministero rigoroso, che leggeva e rileggeva i codici e le carte prima di accusare, pronto a fare un passo indietro e a chiedere di archiviare l’indagine se era il caso. Quando però entrava nella battaglia processuale lo faceva con ardore, i testimoni di Vallettopoli che non avevano il coraggio di dire la verità sui foto-ricatti perché intimoriti da Corona se li mangiava con gli occhi e gli urlava addosso.
Odiava soprattutto l’omertà dei ricchi e potenti, aveva fatto chiudere l’Hollywood e altri locali ben frequentati di Milano per la cocaina e le tangenti. Era invece debole coi deboli e, per quelli come Corona che fingevano di fare i forti, provava a volte tenerezza. Tutti gli anni, e spesso lo faceva quando l’azzurro nel cielo di Milano latitava da un po’ come in questi giorni, mi chiamava nel suo ufficio e domandava: «Senti, io non ce la faccio più a stare in questa città. Che faccio, chiedo il trasferimento?». Dopo qualche settimana mi riconvocava: «Io ci ho ripensato, ma dove vado? Al Sud, che tanto non mi fanno lavorare? Almeno qua posso occuparmi dei colletti bianchi che poi mica sono tanto meglio dei mafiosi. Questa città è marcia, anche se non sembra».
Era qualche anno fa, prima che arrivassero al Pirellone le indagini sulla ’ndrangheta e sulle vacanze a scrocco di Formigoni. Si rammaricava d’intuire spesso piste investigative che poi perseguivano altri. Per fare carriera in magistratura bisogna scegliere una parte in cui stare e Di Maio era uomo di dubbi, non di schieramento.
Negli ultimi due anni ha lottato da gigante per sopravvivere a una malattia con la quale dialogava ogni minuto con ironia e forze indomite. Il suo cruccio, nei momenti più duri della convalescenza, era non avere viaggiato abbastanza, essersi dedicato troppo tempo al lavoro. Ma da quando aveva rimesso la testa nelle sue indagini, durante le ultime settimane, gli era tornato il colore in viso, e di viaggi non ne parlava più, finché all’improvviso non l’hanno costretto a partire, e questa volta non ha potuto ripensarci.