Giovanna Melandri andrebbe accompagnata alla porta senza troppi ringraziamenti non tanto (o non solo) perché si è prestata da presidente di un museo contemporaneo alla rappresentazione plastica di maggiordomo del Potere, quando l’arte per definizione non dovrebbe avere padroni, men che meno questi che circolano in casa nostra. No. Paradossalmente, questa è la ragione più debole, seppur clamorosamente evidente, della sua inadeguatezza, che ha avuto la sua scandalosa rappresentazione nel rifiuto di proiettare in una sala del Maxxi il film di Bill Emmott sul coma del Paese Italia.
Il vero punto di non ritorno, e che lei stessa ha rivelato in un’intervista illuminante a Repubblica, lo avevamo in qualche modo appreso, in prossimità dello scandalo, da Paolo Conti, giornalista del Corriere della Sera che si è occupato della questione. Conti ci aveva spiegato che, per far cassa, il Maxxi si è sostanzialmente trasformato in «affittacamere», concedendo a pagamento i suoi spazi per eventi che escono dal recinto ristretto della programmazione artistica. Tra cui, appunto, questo film di Emmott.
Alla nostra eccezione -– «ma la Melandri non sapeva un tubo?» – e la conseguente risposta di Conti: «Ovviamente no», abbiamo dovuto tirare la malinconica conclusione che anche l’ex ministro della Cultura di questo Paese era entrata a buon diritto, e dalla porta principale, nel grande mondo «Amiainsaputa», genere letterario tra il porno soft e l’editoria per bambini inaugurato da Claudio Scajola, unica sfumatura il grigio, che ormai «vanta innumerevoli tentativi di imitazione!» (cit. La Settimana Enigmistica).
Sentite infatti con quale serenità la Melandri racconta a Repubblica l’insussistenza del suo mandato: «Ho parlato a lungo con Bill Emmott questo pomeriggio e gli ho spiegato le mie ragioni. Avevamo dato la disponibilità della sala alla società Terravision senza sapere a cosa servisse. Nel frattempo, io avevo deciso che nel mese e mezzo che precedeva le politiche non avremmo ospitato iniziative elettorali al Maxxi. Poi, il 23 gennaio, ci arriva una mail che parla di una «serata dal mood antiberlusconiano». L’ufficio commerciale è venuto a chiedermi cosa doveva fare, visti gli accordi presi, e io ho detto: “Proponiamogli il 26”».
Per capire meglio. Da una parte abbiamo un museo di arte contemporanea, nato all’epoca con prospettive straordinarie, affidato alla sapienza di un’archistar come Zaha Hadid, che cerca in tutti i modi di fare cassa perché i contributi statali più la biglietteria, la libreria, ecc., evidentemente non bastano. E dunque si raccatta «roba» a destra e a sinistra per rimpinguare l’esangue bilancio. Il minimo che si possa fare è controllare in maniera impeccabile questa «contro-programmazione» e per due motivi: uno, per renderla veramente “compatibile” con il resto della programmazione artistica, due, per evitare che ci possano essere cadute di stile e di livello che portino nocumento al buon nome del Museo.
In tutto questo, cosa ci dice la Melandri, presidente di quella istituzione? Io non sapevo. Abbiamo dato la disponibilità della sala «senza sapere a cosa servisse». Ma questo non può essere un atteggiamento accettabile, e non solo se applicato a uno dei musei contemporanei più importanti del Paese, ma in qualunque luogo di responsabilità pubblica (ma anche privata). Questa è totale superficialità, che è una gran brutta bestia se poi un bel giorno incrocia, per una beffa del destino, una questione così decisiva come la libertà di espressione. E se la superficialità porta alla censura, il risultato finale è un pateracchio che fa ridere il mondo (artistico e non).
Ps. Con l’amico Paolo Conti (e di conseguenza con il Corriere della Sera) ci divide tristemente il finale. Oggi scrive che in fondo la Melandri, «vista l’anomalia del quadro politico italiano, ha fatto bene», salvo sottolineare che «ovviamente, c’è da ammetterlo, il ragionamento regge solo in Italia». Ecco, spiegaci, caro Corriere della Sera, perché dobbiamo sempre accontentarci del basso cabotaggio?