Anche la Slovenia ha i suoi grillini

Ce l’hanno con la “casta” dei politici e chiedono il controllo diretto sull’economia

La Slovenia è geograficamente incollata al nostro confine orientale e costituisce uno dei nostri principali partner commerciali in Europa, con un interscambio di 4 miliardi di euro annui.

Eppure di quello che sta accadendo in questo piccolo Paese sappiamo poco o niente. Se non ci fosse la Rete, che supplisce alla mancanza di informazioni sui grandi mezzi di comunicazione radio-televisivi, penseremmo che laggiù tutto continui a filare liscio, alla faccia di altri Paesi europei, come la stessa Italia, che invece stanno facendo i conti con una grave crisi economica e finanziaria.

Perché? La risposta è una e una sola: paura di essere contagiati dall’ondata di proteste di piazza che sta scuotendo questo paese da ormai parecchi mesi. Una protesta che ha portato, lo scorso 27 febbraio, alla caduta del governo guidato dal conservatore Janez Janša, fautore di una rigida politica di austerità, secondo i dettami della Ue. 

Prima che in Europa si propagasse la grave crisi finanziaria che ha mandato in malora molte economie nazionali, la Slovenia era considerato uno degli Stati più virtuosi in ambito Ue. Quando il 1 gennaio del 2007 entrò a far parte del club dell’Euro, si parlò addirittura di “alunno modello”, a significare di come questo paese si fosse diligentemente preparato all’appuntamento.

Sono passati solo cinque anni da quel magico momento e oggi lo stesso paese rischia la bancarotta ovvero, che poi è anche peggio, di doversi affidare, come la Grecia, alla mano “salvifica” della Troika, agli aiuti a strozzo concessi da Bruxelles.

Spiegare quello che è accaduto in questi anni in Slovenia non è difficile, perché il copione, dal 2008 ad oggi, è sempre lo stesso, da Washington fino alla piccola Lubiana. C’è stato un momento nella storia recente dell’Occidente in cui la “vertigine” del capitale, per usare una nota allegoria marxiana, è stata particolarmente forte: l’idea di poter fare soldi con i soldi, attraverso spericolate operazioni di finanza creativa, trasformando debiti in crediti e viceversa, è stata la cifra del capitalismo. 

Nel suo piccolo la Slovenia ha fatto la sua parte: nel periodo d’oro dell’esordio europeista, quando l’economia era effettivamente in espansione, le banche hanno concesso mutui e prestiti, segnatamente nel settore edilizio ed immobiliare, senza chiedere particolari garanzie ai contraenti, come in America, con i famigerati mutui subprime. Poi i crediti sono stati cartolarizzati, inondando il mercato di titoli spazzatura, poggiati cioè sul nulla.  Ai primi conati della crisi economica il sistema è crollato: i cittadini hanno avuto meno soldi in tasca, i crediti sono diventati in larga parte inesigibili e le banche sono andate sotto. Il castello di sabbia della finanza creativa e dei mutui a buon mercato si è insomma sgretolato, lasciando sul groppone dello Stato, che in Slovenia è azionista di maggioranza delle principali banche commerciali, e di conseguenza su quello dei cittadini, il peso del rientro dai debiti.

Il caso più grave è quello della Nova Ljubljanska Banka (Nlb), controllata al 64% dallo Stato, che ha accumulato debiti per 2,1 miliardi di euro. Ma ci sono anche la Nova Kreditna banka Maribor (Nkbm) e Abanza, anch’esse partecipate dallo Stato, che, con i loro 600 milioni di euro circa di disavanzo ciascuna, non se la passano certamente meglio.

Il governo di centrodestra appena esautorato ha provato a far fronte all’emergenza varando un piano di ricapitalizzazione delle banche per un valore di 4 miliardi di euro, una cifra enorme per un paese come la Slovenia, da finanziare attraverso tagli alla spesa pubblica e nuove imposte. 

Nello scorso mese di aprile è stato varato il cosiddetto “pacchetto anticrisi”, un bouquet di leggi dirette a tagliare pesantemente la spesa pubblica, al fine di ridurre dal 6 al 3 per cento il deficit di bilancio. Nella sostanza si tratta di misure che prevedono decurtazioni agli stipendi degli statali, riduzione degli assegni famigliari e di maternità, dei bonus per le famiglie numerose, delle sovvenzioni per gli asili, degli indennizzi di disoccupazione, dei finanziamenti alla scuola ed all’università, oltre a licenziamenti nel comparto pubblico e privatizzazioni.

Gli sloveni però hanno detto no. Da mesi ormai il Paese è teatro di scioperi e manifestazioni che coinvolgono un numero sempre più grande di cittadini, di giovani, di lavoratori, di studenti. Il 23 gennaio scorso, prima che il governo Janša venisse sfiduciato dal parlamento, si è svolta la più grande protesta di piazza, con astensione dal lavoro di migliaia e migliaia di dipendenti pubblici, dal 1991, anno della dichiarazione di indipendenza del paese dall’ex Jugoslavia.

Nel frattempo è stato eletto un nuovo governo, che vede come primo ministro una donna, la quarantenne Alenka Bratušek, leader del partito di centrosinistra Slovenia Positiva, ma le manifestazioni non cessano, la protesta non si spegne. La lotta alle politiche di austerità si lega sempre più a quella per il ricambio della classe politica, giudicata corrotta ed inadeguata alle sfide che ha davanti il paese.

A proposito delle proteste di piazza che sono andate in scena tra novembre e dicembre dell’anno scorso nella città di Maribor, che hanno avuto come bersaglio il sindaco Franc Kangler, accusato di corruzione, alcuni commentatori hanno parlato addirittura di “insorgenza”. Ciò in considerazione del fatto che in questa città la protesta è stata molto dura, con tentativi di assalto ai palazzi del potere locale, devastazioni e scontri durissimi tra manifestanti e polizia. 

Lo slogan dei manifestanti è «gotof je!» (letteralmente «siete finiti!»). Cheriecheggia molto le parole d’ordine di Grillo in Italia, come l’ormai noto «arrendetevi, siete circondati!», oppure «i partiti sono finiti. Anche loro ce l’hanno con la “casta” che deve andarsene a casa, vogliono che i cittadini possano esercitare un controllo sull’attività dei politici e sulle politiche governative, ma anche sull’economia e la produzione della ricchezza. Peraltro questa affinità da alcuni viene anche rivendicata, se è vero che su alcuni giornali si è addirittura inneggiato al comico italiano per le sue posizioni critiche sull’Europa di Maastricht.

A differenza dei militanti del M5S, però, gli indignati sloveni scendono in strada. Occupano le piazze, si scontrano con le forze dell’ordine. Presentano un profilo molto diverso da quello prevalentemente “istituzionale” dei grillini in Italia e quando organizzano le loro manifestazioni parlano di “sollevazioni popolari” (Ljudska vstaja).

Un ruolo centrale nell’organizzazione della protesta ce l’hanno, ovviamente, la Rete e i social network in particolare. Molto attivi sono alcuni profili su Facebook, come Franc Kangler naj odstopi kot župan Maribora e Janez Janša naj odstopi kot premier Republike Slovenije, nati per chiedere le dimissioni rispettivamente del sindaco di Maribor e del Primo Ministro Janez Janša, che oggi contano decine di migliaia di fan.

Lo scorso 9 marzo, a dieci giorni dalla formazione del gabinetto Bratušek, migliaia di persone, sotto lo slogan «Skupaj do Konca!» (Insieme fino alla fine) hanno di nuovo invaso le strade di Lubiana, per protestare ancora contro la classe politica locale, contro le banche responsabili della crisi finanziaria, per denunciare l’insostenibilità della situazione economica e sociale venutasi a creare nel paese. Si è trattata della quarta Ljudska vstaja, per stare alla terminologia usata dagli organizzatori.

Il nuovo primo ministro ha dichiarato che non intende chiedere aiuti a Bruxelles, né vuole proseguire sulla strada tracciata dal suo predecessore. Non è chiaro però come intenderà fare fronte al problema del buco bancario e del più esoso servizio del debito, considerato che, da stime recenti, servirebbero per il primo altri cinque miliardi di euro e per il secondo altri due.

Limitandosi a dichiarare che le politiche di risanamento non dovranno deprimere l’economia del paese e, genericamente, che bisognerà invertire la politica “di estrema e rigida austerità” del governo precedente, non ha in sostanza avanzato una proposta di reale discontinuità con la logica rigorista ispirata dalla tecnocrazia di Bruxelles e dai banchieri di Francoforte. Un colpo al cerchio e uno alla botte, potremmo dire.

Intanto i numeri dell’economia reale incominciano a farsi più preoccupanti. Il Paese è in recessione ormai da alcuni anni, ma nel quarto trimestre del 2012, con una diminuzione del prodotto interno lordo dell’uno per cento su base trimestrale e del 2,8% rispetto a un anno prima, il quadro generale si è ulteriormente aggravato. Lo dicono anche le stime ufficiali sui consumi, che nel quarto trimestre del 2012 sono scesi del 7,8% in termini reali.

È aumentata anche la disoccupazione, portandosi al di sopra della media europea (11%). Secondo i dati forniti recentemente dell’Agenzia d’Impiego della Repubblica di Slovenia, il numero dei disoccupati a gennaio 2013 ha raggiunto le 124.258 unità (+5,2% rispetto al dicembre dell’anno precedente), un salto all’indietro di circa 15 anni.

Le piccole dimensioni del Paese giocano a favore di una possibile ripresa. Ma anche qui, come in altri paesi europei, compreso il nostro, il problema è capire se l’austerità serve ad uscire dalla crisi ovvero ad aggravarla. La Grecia, che ormai è assurta ad esempio lapalissiano del fallimento e della nocività delle politiche di rigore fine a se stesse, è lì a testimoniare come il problema del superamento della crisi finanziaria, impastata a quella economica, potrà essere risolto, per i paesi dell’Eurozona, soltanto rivedendo il paradigma della costruzione monetaria e dell’integrazione europea, allentando la morsa dei vincoli applicati ai bilanci pubblici, dando ossigeno ai sistemi produttivi anziché soltanto ai mercati finanziari.

Per quanto riguarda la Slovenia, in ogni caso, questo è ormai solo un corno della questione. Perché la piazza è andata ben al di là della richiesta di una diversa politica economica: vogliono mandare a casa tutta la classe politica e rifondare la democrazia.

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