Alberto Mingardi, autore del libro L’intelligenza del denaro, è Direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni.
Teme per la tenuta della moneta unica? O eventualmente il break up lo ritiene un fattore positivo?
Ci vuole molta più fantasia di quanta ne abbia io, per immaginare le conseguenze rasserenanti di un break up dell’euro. Mi limiterei a due, più modeste, osservazioni. La prima, è che per quanto scarsamente auspicabile possa essere la fine dell’euro non si tratta di uno scenario impossibile: fa impressione che le classi dirigenti europee, molto semplicemente, si rifiutino di considerarlo una possibilità concreta. Sarebbe meglio avercelo, un piano B, no?
La seconda osservazione attiene alla natura dell’euro. La credibilità dell’euro si fonda, sin dal principio, sulle regole che lo governano. Sulla carta, le regole non sono cambiate, ma la Bce di Draghi si muove con molta spregiudicatezza e l’impressione di tutti è che le regole possano essere forzate alla bisogna. Ma la solidità di un club si vede da un buon regolamento circa l’ammissione e l’eventuale espulsione dei soci inadempienti, non dal fatto che pur di non perderne neanche uno si sia pronti a cambiare acrobaticamente lo statuto.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli
Austerity e crescita sono visioni contrapposte oppure conciliabili?
In realtà sia “austerità” che “crescita” sono parole passepartout, dietro alle quali possono stare le più diverse politiche. È “austerità” ridurre le spese, ma anche aumentare le tasse: l’obiettivo è apparentemente il medesimo (sistemare i conti dello Stato) ma gli strumenti impiegati sono assai diversi e anche la direzione di marcia (più risorse per la macchina pubblica, una macchina pubblica che costa di meno) non è la stessa. La “crescita” è un obiettivo che alcuni ritengono ancora di poter perseguire attraverso la spesa pubblica, e non invece liberando risorse ed allentando le briglie all’economia privata.
La differenza cruciale fra l’una cosa e l’altra è che lo Stato può provare a fare “rigore”, a controllare i conti pubblici, ma non può fare “crescita”, perché quella la fanno le imprese.
Certo, se il “rigore” fosse fatto con tagli d’imposta, e se nel contempo la “crescita” fosse fatta alleggerendo il peso di norme e regolamentazioni sulle imprese private, le due cose potrebbero andare assieme. Ma la classe politica, di norma, preferisce interpretare l’austerità come un aumento della pressione fiscale per far quadrare i conti, e l’imperativo della crescita come il mandato a fare investimenti coi soldi del contribuente.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli
Vede il rischio di una depressione europea su larga scala? È a rischio la tenuta sociale?
Quando parliamo di “Europa”, noi pensiamo sostanzialmente a Italia, Francia, Germania e Spagna. Però l’Europa oggi è fatta di 27 Paesi, che non hanno seguito tutti il medesimo percorso per quanto riguarda riforme economiche e dello Stato sociale. Il Nord e l’Est stanno meglio di noi, e soprattutto hanno sistemi politici meno disfunzionali.
Certamente, se guardiamo a Spagna, Italia e Francia la situazione è preoccupante. In Italia, la crisi istituzionale si è avvitata su quella economica e la totale assenza di punti di riferimento credibili (con l’esclusione del solo Presidente della Repubblica) potrebbe contribuire al deterioramento del clima sociale.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli
L’Europa rischia di finire a Cipro? La Grecia sembra non aver insegnato nulla…
È una situazione davvero strana. Da una parte, c’è la convinzione che il fallimento sovrano vada scongiurato a tutti i costi. Dall’altra, questa sorta di “diritto al bail out” non è stato minimamente codificato. È una situazione che somiglia a quella greca nel senso che tutti sembrano impegnati ad aumentare l’incertezza, anziché a ridurla. Il resto del mondo sembra pensare, in modo abbastanza disincantato, che Cipro è piccola e periferica, ma certo non stiamo dando un bello spettacolo. Personalmente, credo che con Grecia e Cipro si sia persa una grande occasione: quella di sperimentare un caso di fallimento sovrano, su scala ridotta. Invece si è fatto di tutto per “comprare tempo” per le banche dell’eurozona esposte al debito greco, imponendo nel contempo riforme mal digerite e, a quanto par di capire, male applicate. Si sarà pure aiutato il sistema bancario europeo, ma è aumentata a dismisura l’incertezza. Si è dimostrato una volta di più che le regole europee sono fatte per essere “interpretate” alla bisogna, a cominciare dalla no bail out clause, ma in un mondo dove le regole sono sempre “interpretabili” a seconda della necessità politica non c’è davvero quella certezza del diritto che è imprescindibile per un’economia che funzioni.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli
Quanto incide la mancanza di leadership politica nella gestione della crisi?
Le nostre classi dirigenti fanno tutte abbastanza schifo, per dirla in termini poco edulcorati. I leader italiani ci fanno disperare, ma se ci guardiamo attorno, dalla Merkel a Sarkozy e Hollande, davvero l’impressione è che noi europei abbiamo deciso di farci governare da persone insignificanti ed inadeguate. La loro inadeguatezza è per così dire esaltata dal momento storico, dalle difficoltà e, simmetricamente, dagli straordinari poteri di cui questi signori godono e di cui ancora più potranno godere, facendosi scudo della necessità di rispondere alla crisi. Viene in mente quel modo di dire napoletano: ’a pazziella in mano ’e creature.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli
Quale responsabilità ha la Germania in questa crisi?
Se i tedeschi somigliassero alla loro caricatura, quella di coriacei rigoristi che conservano indipendenza della banca centrale e conti in pubblici in ordine, staremmo credo tutti meglio. Invece “i tedeschi” non sono un monolite, e la signora Merkel mi pare più impegnata a solleticarne tutte le diverse sensibilità che a esprimere un progetto chiaro e coerente per l’Europa. Da una parte reclama, com’è ben comprensibile, un ruolo di leadership nel progetto europeo, dall’altra pare preoccupata delle ripercussioni elettorali. Non mi pare abbia una visione economica chiara e coerente, e l’approssimarsi delle elezioni non aiuta.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli
Come si esce da questa spirale? È immaginabile l’approdo agli Stati Uniti d’Europa?
È l’approdo che immaginano le classi dirigenti europee, e dal mio punto di vista è il vero grande problema. A qualsiasi questione si presenti, le classi dirigenti europee rispondono nello stesso modo: ci vuole più Europa. Ma “ci vuole più Europa” che vuol dire? Continuare a svuotare gli Stati membri di potere legislativo è possibile, se gli elettori restano comprensibilmente affezionati alla democrazia nazionale, anche perché nessuno ha la benché minima idea di come sarebbe fatto un dibattito democratico in una comunità politica in cui si parlano 23 lingue diverse?
Il guaio è che continuiamo a ragionare come se una maggiore centralizzazione fosse un obiettivo ragionevole e sensato “di per sé”. Per dirlo con una battuta: l’Europa poteva essere una grande Svizzera, è stata progettata come una grande Francia, finirà per essere una grande Italia. Cioè: potevamo avere un’area comune di libero scambio con unità politiche decentrate e in concorrenza l’una con l’altra, abbiamo scelto di pantografare lo Stato nazionale, ci ritroveremo con un superStato fondamentalmente diviso fra un Sud e un Nord che resta assieme solo se si trova il modo di fare una qualche redistribuzione dal Nord al Sud.
Come ha risposto a questa domanda: Francesco Daveri, Giulio Sapelli