Più futurista dei futuristi, interventista epico ma anche patetico («maneggiando la mitragliatrice si sfonda un occhio»), grandioso nello stile e fondatore di un modo di vivere assoluto. Gabriele D’Annunzio, di cui ricorrono oggi i 150 anni dalla nascita (in un anniversario offuscato dall’attualità, politica ed economica) «fu un uomo che agì in modo lirico, e di cui oggi ci rimangono solo parodie», secondo la sintesi del critico d’arte Philippe Daverio.
Un compleanno che passa in sordina. Inattuale per il mondo di oggi?
Sì e no. Non è un uomo che vivrebbe nel mondo di adesso, anche se ne contiene in sé i tratti. Come, ad esempio, è da ricordare il gesto che fece da parlamentare, nel 1900. Mostrò i suoi gemelli lascia la maggioranza per passare nei banchi dell’estrema sinistra.
Trasformismo?
Sì, ma grandioso: lo fa gridando che vuole andare “dove c’è la vita”. Un vitalismo unico, che lo rende protagonista della sua epoca.
Senza eredi.
Dopo di lui gli intellettuali ne mostrano poco, di vitalismo. Sono più uomini di riflessioni che non fanno molta azione. Lui è il più grande rappresentante di un’epoca, anche perché dopo non ci sono più figure del genere. L’unico che mi viene in mente, dopo di lui, è Giorgio Bocca. Ma la spettacolarità dei suoi gesti, sia nelle imprese, come a Fiume, la teatralità, è rimasta poco seguita. Quello che abbiamo ora è una parodia.
Cioè?
La spettacolarità e la teatralità di Berlusconi o di Beppe Grillo nei confronti di D’Annunzio sono delle parodie. È quello che ci è rimasto: parodie del dannunzianesimo e del fascismo. Anche la traversata dello stretto di Grillo è quello che è: un incrocio tra il Mao Tse Tung e il Gabibbo.
Addirittura.
Viviamo nell’epoca del trash e della caricatura, e loro sono i nostri rappresentanti. Della grandezza di D’Annunzio resta poco. Ad esempio, della sua cultura, raffinatissima. D’Annunzio, e insieme a lui anche Marinetti, scrivono in un francese formidabile, eccellente, ottimo. Anzi, sul francese di D’Annunzio si può dire di più.
E cosa?
Che è bipolare.
In che senso?
In italiano adotta una scrittura ampollosa, oscilla tra il barocco e il gongorista. Ma in francese è volterriano, quasi razionalista. Tutta un’altra cosa. Ma come si spiega questo?
Lo dica.
Col fatto che la personalità di D’Annunzio era, nel suo profondo, molto teatrale. E questo si riflette in una grande flessibilità nell’uso della lingua. Se scriveva romanzi come La Figlia di Iorio, per fare un esempio, con uno stile che a noi è tanto lontano da farci ridere, D’Annunzio era autore anche di articoli di giornale secchissimi, che farebbero scuola anche oggi. Erano persone di grande cultura, che sapevano usare la lingua e la scrittura come strumento, e lo facevano. Ancora oggi, del resto, non è chiaro se fosse un grande scrittore o un grande letterato.
Ma la sua grandezza lo rende poco amato anche dal fascismo.
Che cerca di isolarlo, di tenerlo a bada. Era un personaggio con un carisma che poteva essere fastidioso. Eppure, quando voleva esercitare il suo potere, lo faceva. Quando Mussolini si recò in visita a Hitler, D’Annunzio fece fermare il treno a Verona, per salirvi e fare una ramanzina al duce. Non gli piaceva quell’alleanza. E, forse, se non fosse morto poco dopo, le cose avrebbero potuto andare in modo diverso.
Non lo sapremo mai. Resta però un personaggio grandioso.
Sì, ma aldilà di tutto, quello che più ci ha lasciato a livello di società, oltre ai nomi dei marchi, come la Rinascente, o il conio di frasi e parole, è un solco che ha aperto, tutto della psicologia italiana: quello del binomio “donne e motori”.