Pizza ConnectionE a Palermo si torna a sparare per mafia

Confermata in Appello la condanna a Dell’Utri per concorso esterno. Il Pg chiede l'arresto

A Palermo gli «sparati» parlano sempre. La scena di un crimine di mafia, il sangue per le strade, raccontano molto e a volte anche tutto. Infatti se c’è un omicidio, il ricordo va agli anni in cui i giornali titolavano: «Palermo come Beirut». Quando ogni giorno nel capoluogo siciliano c’era un morto ammazzato, e la gente comune aveva paura di uscire di casa. Erano gli anni della guerra fra le famiglie “mafiose”, con i “corleonesi”, denominati “Viddani” (uomini di campagna) a farla da padroni, che conquistavano il capoluogo siciliano, e dominavano senza colpo ferire. Anni bui per la regione più “democristiana” d’Italia. Anni sul quale ancora oggi si discute per comprendere cosa sia successo, e, sopratutto, se ci sia stata una presunta trattativa fra una fetta di Stato e i capibanda di Cosa Nostra.

Sono gli anni culminati nelle stragi del ’92, quando i vertici mafiosi fecero saltare per aria i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, «uomini soli» che facevano paura al potere. «Italiani troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte», scrisse il giornalista esperto del fenomeno mafioso Attilio Bolzoni. Dicevamo, dopo quegli anni bui sembrava che tutto fosse finito. Cosa Nostra non si fece più sentire, e stette a guardare dalla finestra. Ma allo stesso tempo continuò a stipulare accordi sotto traccia «di non belligeranza» con quella parte politica, che dal 1994 al 2012 dominò in lungo e largo per tutto il territorio siciliano, e, sopratutto, a Palermo.

Ecco perché il «silenzio» dei proiettili. Ecco perché negli ultimi anni Palermo non ha più occupato le pagine dei giornali per fatti di cronaca “nera” legati al fenomeno mafioso. E tuttavia «il silenzio» non può mai durare all’infinito. Non a caso i primi segnali di un cambiamento di clima erano stati lanciati dalla Direzione Investigativa Antimafia nel primo report semestrale del 2012. Un report che metteva in luce come «i vertici mafiosi sono interessati da ciclici avvicendamenti: quando i capi storici sono in carcere, nuovi personaggi, da gregari, vanno a rivestire ruoli più importanti, salvo poi il ripristino dei vecchi equilibri, con il rispetto della “anzianità”, all’atto delle scarcerazioni».

Tuttavia, tenendo conto di una sostanziale fase di riorganizzazione interna a Cosa Nostra, proseguiva la Dia nel rapporto, e la scarcerazione di numerosi boss di Palermo e provincia, si ipotizzava che questi potessero far «sentire la loro influenza nel tentativo di rilancio della consorteria» senza escludere «conflittualità interne ai sodalizi per contrasti sulla riaffermazione delle vecchie “leadership” a detrimento delle nuove leve». Conflittualità che il report individuava già a Catania ed Enna, ma che adesso si stanno manifestando anche nel palermitano.

Non è infatti un caso che la stessa Dia, in una nota, avesse preso a riferimento per spiegare la possibilità di conflitti interni a Cosa Nostra, la scarcerazione di 23 elementi tra capi mandamento e personaggi organici alle varie famiglie. Soggetti, scrivono gli investigatori, «di spicco riferibili a Cosa Nostra, tra cui il capo del mandamento di Brancaccio e quello della famiglia della Kalsa».

In particolare nel settembre del 2011 l’omicidio di Giuseppe Calascibetta, ritenuto organico al mandamento di Santa Maria del Gesù, riaccende i riflettori sul sangue di Palermo. Calascibetta, 60 anni, da oltre trent’anni protagonista dei processi di mafia in Sicilia viene freddato a colpi di calibro 7.65. «Un segnale allarmante – commentò immediatamente il procuratore aggiunto di Palermo, Ignazio De Francisci – non è esclusa la possibilità che la mano del delitto sia arrivata da un altro mandamento. E in questo caso – specificava De Francisci – saremmo di fronte a movimenti a livello apicale nell’ambito di Cosa Nostra palermitana».

Ma c’era da aspettarselo. Perché già nella relazione della Direzione Investigativa Antimafia del periodo Giugno-Dicembre 2011, gli investigatori mettevano nero su bianco come Cosa Nostra «seppure duramente colpita, conserva energie, ed appare intenta a recuperare efficienza rimodulando i propri assetti e rivisitando la ripartizione delle competenze territoriali tra le famiglie. Dopo un periodo di stasi – concludono gli uomini della Dia – si rileva il ricorso all’omicidio quale strumento risolutore dei contrasti». Detto fatto il ricorso all’omicidio non si è fatto attendere, con un’altra morte per cui gli investigatori sono decisi a percorrere la pista mafiosa. È quella di Francesco Nangano, 50 anni, commerciante d’auto, residente al quartiere Brancaccio e raggiunto da sei proiettili calibro 9 lo scorso 16 febbraio.

L’uomo aveva in passato subito una condanna per mafia e omicidio, salvo poi essere assolto in via definitiva nel 2007 con tanto di risarcimento da 270mila euro per ingiusta detenzione. Fece rumore il nome del rivenditore d’auto di Brancaccio quando gli investigatori nel corso di una indagine scoprirono una sua relazione sentimentale, mentre era latitante, con un’assistente sociale, impegnata come giudice popolare in un processo di mafia. Lei disse di non credere a nessuna delle accuse rivolte a Nangano, ma dovette lasciare la giuria.

Stando alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia Francesco Nangano non era un ‘uomo d’onore’, ma sarebbe stato comunque vicino al boss Gaspare Spatuzza. Secondo altri invece il suo coinvolgimento in fatti di mafia risalirebbe alla scelta di richiedere protezione a un affiliato a Cosa Nostra in seguito ad alcuni danneggiamenti. Per il procuratore aggiunto della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo Vittorio Teresi, «è troppo presto per dire che è scoppiata una nuova faida mafiosa ma certamente i segnali sono precisi. Francesco Nangano – specificava Teresi all’edizione palermitana de La Repubblica – negli ultimi tempi era uscito dai circuiti mafiosi, ma forse voleva rientrare e per punirlo lo hanno ucciso». Teresi rivelava inoltre che proprio nel quartiere, roccaforte dei Graviano, «la situazione è in movimento, adesso bisogna capire cosa accadrà».

Pista mafiosa che viene comunque battuta con prudenza dagli stessi inquirenti, in particolare dopo un altro omicidio, consumatosi martedì scorso nella borgata di Villagrazia. A rimanere ucciso è stato Giovan Battista Tusa, 71 anni, con precedenti per associazione mafiosa. A smorzare la forza della pista mafiosa era stato il capo della Omicidi palermitana, Carmine Mosca. «Non parlerei subito di omicidio di mafia, perché in base a quello che abbiamo al momento rilevato, non si tratta delle modalità tipiche delle cosche: è soltanto uno il colpo sparato e al fianco sinistro. Ancora è presto per stabilire il contesto in cui è maturato il delitto».

Nella mattinata di giovedì la svolta del caso con la costituzione del cognato di Tusa, l’ottantenne Vincenzo Gambino, e la pista familiare ora si fa più forte di quella mafiosa per spiegare l’omicidio. Tuttavia in ambienti investigativi si è concordi nel non abbassare la guardia sulla possibilità di nuovi omicidi per ristabilire vecchi equilibri. Anche perché i 23 boss scarcerati cui fa riferimento la Dia sono nomi di primo piano del gotha di Cosa Nostra. Tra loro c’è Alessandro d’Ambrogio, uscito dal carcere nel giugno 2011 per un ritardo processuale, e che però non si sarebbe attardato a riunirsi con i rappresentanti di Porta Nuova, Brancaccio, Villabate, Cruillas, della Noce e Pagliarelli per riequilibrare il potere in vista del ritorno di storici capimafia. Nomi come quelli di Rosario Sansone, Giuseppe Biondino, ritenuto vicino al boss Antonino Cinà, Massimiliano Ingarao del clan della Noce e Alessandro Costa libero dallo scorso ottobre.

Senza dimenticare il ritorno a Brancaccio di Pietro Tagliavia, Giuseppe Asciutto e la scarcerazione eccellente, con 800 giorni di sconto di pena, dell’ex medico boss Giuseppe Guttadauro (si trovava in carcere dal 2001 con una condanna a 13 anni e 4 mesi) coinvolto nell’affaire Cuffaro. Ritorni eccellenti a Brancaccio (anche se Guttadauro si sarebbe ristabilito a Roma), territorio d’azione di Nangano, dove probabilmente lo stesso aveva provato a inserirsi nel giro della droga e del pizzo, ma senza l’autorizzazione dei vertici. Vertici che gli investigatori devono ridisegnare dopo che nel 2011 l’operazione ‘Araba Fenice’ portò in carcere 36 persone del mandamento del quartiere.

Per Felice Cavallaro, cronista del Corriere della Sera, ed esperto del fenomeno mafioso, «di certo la criminalità va tenuta sotto controllo». Ma bisogna sempre discernere fra «la mafia criminale che continua a chiedere il pizzo, e l’altra mafia che cerca il rapporto con il potere». Quale delle due è più pericolosa? La prima sta tornando a far parlare di sé. La seconda, forse, non ha mai smesso di esistere…
 

X