In più di un punto del programma elettorale di Grillo compare l’idea di limitare i confini e il ruolo dei mercati finanziari. Battaglia di retroguardia o puro buon senso? Il dubbio viene, visto che perfino la rivista The Economist, che è difficile definire avversa ai mercati (anche se Berlusconi ci riesce), scriveva nel 2009: Financial markets promised prosperity; instead they have brought hardship (24 gennaio 2009, p. 3). Sembra il tipico caso in cui il Cardinale e Perpetua concordano. Vale allora la pena appronfondire un po’.
La ragione del recente scetticismo nei confronti dei mercati finanziari ha – come tutti sanno – origine nella crisi finanziaria del 2007-2009 che ha causato una recessione mondiale la cui portata, in termini occupazionali e di riduzione del PIL, è paragonabile solo alla crisi del ’29. In effetti, le crisi finanziarie non sono un evento raro se viste in prospettiva storica. Hanno attraversato i secoli e tuttora interessano sia i paesi in via di sviluppo che i paesi sviluppati (cfr. This time is different, Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff). Dobbiamo dunque preoccuparcene anche noi.
E cosa ne pensano gli economisti? Una buona parte, il mainstream direbbe qualcuno, evidenzia soprattutto gli aspetti positivi legati allo sviluppo finanziario, che promuove l’innovazione e la crescita economica. In che modo? Permettendo ad imprese e individui sprovvisti di mezzi finanziari propri di realizzare investimenti produttivi che altrimenti non potrebbero intraprendere. Inoltre, la presenza di mercati finanziari funzionanti permette di assicurarsi contro varie tipologie di rischio e di diversificare meglio il rischio, consentendo così alla società di intraprendere progetti di investimento più rischiosi ma anche più redditizi.
Voci critiche – a cominciare da quelle di Hyman Minsky e Robert Shiller – si sono tuttavia levate mettendo in evidenza i rischi legati all’espansione dei mercati creditizi che possono generare, per loro natura, non solo cicli espansivi e recessivi legati alle mutevoli aspettative degli operatori (gli animal spirits di keynesiana memoria) ma anche bolle speculative il cui scoppio può innescare – come è in effetti accaduto nel caso della crisi dei subprime – crisi creditizie con contrazioni dei consumi, degli investimenti e del livello generale di attività economica.
Come si conciliano la visione negativa, predominante nella percezione comune, e la visione positiva, diffusa nella comunità accademica e sorretta da un’ampia evidenza empirica? Marco Pagano, nel recente lavoro Finance: Economic Lifeblood or Toxin? suggerisce una lettura interessante – e porta nuova evidenza – a favore dell’ipotesi che l’espansione dei mercati finanziari possa essere utile nelle fasi iniziali di sviluppo economico di un paese, per poi diventare superflua o perfino dannosa quando il settore finanziario diventa ipertrofico, cioè eccessivamente grande rispetto al resto dell’economia.
In un’economia emergente – argomenta Pagano – i vincoli al credito sono particolarmente stringenti sia per le imprese che per gli individui. In questo caso, lo sviluppo del sistema finanziario ha effetti positivi sull’attività economica perché facilita l’accesso al credito e stimola sia i consumi che gli investimenti, con effetti benefici sia nel breve che nel lungo periodo. Questo implica che riforme che rendono più efficiente il settore finanziario, per esempio rafforzando la tutela dei diritti dei creditori o riducendo il potere di monopolio delle banche, possano generare un’espansione del credito, dell’output e dell’occupazione.
In un’economia sviluppata, invece, la frazione di imprese e individui che non hanno accesso – o hanno accesso limitato – al credito è verosimilmente minore. In questa situazione, il continuo sviluppo del settore del credito non porta benefici e, anzi, rischia di essere dannoso.
La presenza di banche e imprese finanziarie ipertrofiche può infatti generare rischio sistemico attraverso vari canali. Innanzitutto, possono formarsi aspettative di salvataggio delle banche insolventi il cui tracollo potrebbe minacciare la stabilità del sistema economico (too-big-to-fail). Tali aspettative non solo spingono le banche a deteriorare gli standard creditizi e ad assumere posizioni eccessivamente rischiose, ma le spingono anche a scegliere rischi correlati, perché una crisi che coinvolga più istituti bancari ha maggiori probabilità di generare un intervento pubblico di salvataggio (too-many-to-fail). Entrambi i fattori contribuiscono ad aumentare il grado di rischio sistemico presente nell’economia.
Inoltre, un settore del credito sovradimensionato può assumere un peso tale da influenzare negativamente il policymaker, portandolo a scelte inadeguate non solo in tema di regolamentazione ma anche in tema di politica monetaria. Infatti, in presenza di un settore finanziario massicciamente esposto al rischio di credito, una banca centrale non può far molto altro se non ridurre i tassi di interesse ed espandere la liquidità per evitare il collasso finanziario. Di nuovo, l’aspettativa che questo accada fa sì che le banche abbiano scarsi incentivi a evitare di assumere posizioni eccessivamente rischiose, rendendo più verosimile l’avverarsi della crisi.
La morale è che la finanza ha numerosi aspetti positivi ma può diventare perniciosa nel caso in cui il regolatore ne permetta uno sviluppo incontrollato come accaduto nel caso dell’ultima crisi. Bene ripensarne i confini, ma stando attenti a non gettare, con l’acqua sporca, anche il bambino.