Geopolitica del vino, il potere dietro la bottiglia

La nobile Europa assediata

Nell’agosto scorso i viticoltori di Gevrey-Chambertin in Borgogna si sono mobilitati in forze per impedire che l’omonimo castello del XII secolo e i due ettari di vigne adiacenti finissero nelle mani di un investitore cinese. Ma non è stato sufficiente per impedire a un magnate dei casinò di Macao di regalarsi il dominio, valutato 3,5 milioni di euro quando i diversi rami della famiglia proprietaria lo avevano messo in vendita per 8 milioni. Anche se il vino dello chateau non è particolarmente rinomato, Gevrey-Chambertin è la più celebre appellation sui 550 ettari della Côte de Nuits.

La notizia non è che una delle tante manifestazioni della nuova geografia del mondo del vino, che come il resto dell’economia mondiale si sta spostando sempre più ad Est. Il vino è un prodotto profondamente mediterraneo, sia nel consumo, sia nella produzione, che si è globalizzato nel XIX e XX secolo nei paesi dove sono emigrati gli europei, soprattutto del Sud. Solo negli anni ’80 si è iniziato a bere vino durante i pasti in Giappone e solo negli ultimi anni nel resto dell’Asia. Molto rapidamente la Cina è diventata il quinto paese consumatore al mondo, secondo un recente studio di International Wine and Spirit Research per Vinexpo di Bordeaux. E pochi sanno che lo scorso dicembre, per la prima volta in assoluto, nei supermercati coreani è stato venduto più vino che soju, la bevanda alcolica locale.

Negli ultimi anni i nuovi ricchi cinesi, ma anche del resto dell’Asia, delle altre economie emergenti e, bien sûr, delle nuove tecnologie hanno cominciato ad interessarsi al vino come bene d’investimento. I prezzi dei grands crus sono esplosi e Hong Kong è diventata la principale piazza al mondo per le aste. Non sorprende che il passo successivo sia stato acquistare le proprietà vitivinicole: sarebbero più di 20 quelle passate sotto controllo cinese in Gironda, tra cui Latour-Laguens e Lafite-Chenu, mentre Gevrey-Chambertin è il primo investimento in Borgogna. Nessuna però del livello di uno Château Lagrange (giapponese) o del Prieuré Saint-Jean-de-Bébian in Linguadoca (russo). Malgrado la crisi, Vinéa, una società specializzata, stima che in Francia i prezzi medi siano triplicati negli ultimi 20 anni.

Tutto ciò sembrerebbe confermare il timore espresso dallo scrittore Michel Houellebecq di vedere la Francia trasformarsi in un grande museo all’aperto, in cui i turisti stranieri sbevazzano e si divertono. Ma bisogna valutare le cose nella giusta prospettiva. Ancora oggi, nel 60% delle transazioni fondiarie gli acquirenti sono francesi. Parigi, infatti, oltre che discretamente protezionista, è anche complicata con i suoi meccanismi di produzione e di commercializzazione – le famose vendite en primeur a Bordeaux in cui le uve di un cru si pagano con due anni d’anticipo, senza conoscere l’evoluzione del valore commerciale.

Più facile investire negli Stati Uniti, come ha fatto per esempio Lee Hi-sang, presidente del DongA One Group. Un chaebol che ha interessi nell’agroalimentare (principale molinificio coreano) e nella ristorazione, oltre ad essere diventato di recente il distributore esclusivo di Ferrari e Maserati. Nel 2005 Lee acquistò i Dana Estates nella Napa Valley, non senza difficoltà dato che i produttori californiani poco si fidavano di un investitore coreano. Quattro anni dopo il Lotus Cabernet 2007 (un vino da 275 dollari a bottiglia) ricevette la nota perfetta di Robert Parker, un exploit ripetuto quest’anno con l’annata 2010. A Seoul è stato aperto uno spazio enologico (Podo Plaza a Sinsa-dong) il cui wine bar vin.ga è stato il primo in Asia a ricevere un Award of Excellence da Wine Spectator. Da poco più di 2 milioni di euro, il fatturato delle attività vinicole di Lee è cresciuto a 23 milioni, con 150 differenti etichette. La prossima sfida di Dana Estates sarà combinare Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon per produrre un vino nello stile del Bordeaux.

L’universo dell’enologia è cambiato profondamente nel recente passato e sono in molti ad additare in Parker il deus ex machina di questi mutamenti. Osannato da chi detesta lo snobismo dei critici tradizionali, disprezzato da chi invece considera la tradizione più importante del gusto, il protagonista di Mondovino ha rivoluzionato la percezione del vino in tutto il mondo. Oltre che negli Stati Uniti, è stato in Asia che il parkismo ha conquistato. Senza bisogno di cercare di capire il complicato sistema di classificazione del Bordolais o della Borgogna, gli appassionati hanno iniziato a consultare The Wine Advocate per scegliere i vini, più spesso in funzione della notazione che dell’opportunità dell’abbinamento col cibo. Tanto successo che a fine 2012 Parker ha ceduto la quota di maggioranza della sua rivista per 15 milioni di dollari a tre uomini d’affari cinesi di Singapore, anche se la redazione resterà in Maryland. Senza arrivare a tanto, l’ameriacana Wine Enthusiast e l’inglese Decanter hanno lanciato edizioni online in cinese.

Consumo e investimenti, e negli ultimi anni anche produzione. In Europa del Nord sta diventando più comune imbattersi in vini cinesi e indiani, dignitosi pur senza grande personalità. Se si vuole bere esotico, però, difficile battere la produzione del Lago Inle dello stato Shan nel Nordest di Myanmar, un paese noto per riso, pagode e problemi politici, non certo per il vino. Dietro i principali produttori – Red Mountain, con 120 mila bottiglie, e Aythaya, con 100 mila – ci sono appassionati imprenditori europei, il francese François Raynal e il tedesco Bert Morsbach. Oltre che per l’instabilità politica che caratterizzava fino a pochi anni fa il paese, il mestiere del viticoltore in Myanmar è reso difficile dal clima tropicale e dai parassiti. Nelle colline brumose di Shan è possibile coltivare la vigna in altitudine e vinificare a partire da varietà come Shiraz, Dornfelder, Tempranillo e Chianti. Per il momento il risultato è interessante e permette di soddisfare la sete crescente dell’industria turistica locale, che può offrire un prodotto autoctono ai visitatori smaniosi di novità.

Scrivendo su Le Monde l’estate scorsa, Denis Saverot, direttore della Revue du vin de France, ha sostenuto che queste trasformazioni vanno incoraggiate. Del resto chi accusa i nouveaux riches cinesi di mettere in pericolo i valori secolari dei vini francesi – rarità, lusso, eccellenza – dimentica che un po’ ovunque (in Argentina, Cile, California, Africa del Sud, Australia, persino in Inghilterra e in Cina) ci sono case vinicole di proprietà francese. LVMH, proprietaria del brand Moet Chandon, ha una joint venture con Ningxia Farms Agribusiness Group per produrre il primo vino frizzante cinese, venduto col marchio Chandon. Più importante probabilmente sorvegliare l’applicazione delle regole di denominazione geografica: il 21 gennaio alla Casa Bianca l’apple pie della cena di gala per Barack Obama è stata servita con un “Korbel Natural, Special Inaugural Cuvée Champagne, California” … senza che Reims sia stata spostata nottetempo sull’Oceano Pacifico.

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