Dalle stelle alle stalle in dodici mesi. Ovvero dai 29,1 milioni di utili del 2011 ai 20,5 di perdite del 2012. Succede al Banco di Sardegna (BdS): 69 anni di storia, 392 sportelli in Italia e un retroscena che sta trasformando in picconatore Giacomo Sanna, il presidente del Partito sardo d’azione (Psd’Az). La bandiera è quella dei Quattro Mori, vessillo autonomistico in Consiglio regionale, con Sanna capogruppo. Lui si muove al grido di «riprendiamoci la nostra banca», perché «la Bper (azionista di maggioranza da marzo 2001, ndr) ha pagato solo il 35% dell’acquisizione, malgrado siano trascorsi dodici anni».
C’è di più: la Fondazione Banco di Sardegna, che ha in mano il restante 49% di capitale, sembra aver legato il proprio destino al Sol Levante. Non fosse altro che dal bilancio spuntano 56 milioni. Sanna – sassarese come il quartier generale del BdS – svela i dettagli: «Sono i soldi spesi per comprare derivati dalla giapponese Nomura», cioè la banca con cui Mps ha sottoscritto un derivato per tentare di coprire le perdite di bilancio, risultato fatale (all’alleanza con Tokyo guardò pure Unipol per la scalata a Bnl). Sullo sfondo domina un duello politico tutto a sinistra, in quota Pd, per due paralleli cambi ai vertici: uno nell’istituto di credito, l’altro nella Fondazione.
Il 14 marzo Sanna non ci ha visto più: ha preso carta e penna, e firmato una mozione durissima (l’hanno seguito venti consiglieri regionali, soprattutto pidiellini). Nero su bianco, ecco numeri, trend e scenari del BdS. A cominciare dal presunto conto non saldato dalla Bper. Il presidente del Psd’Az non ha dubbi: «Gli emiliani si sono presi il nostro istituto di credito, l’hanno trasformato in una sub holding, ma devono ancora versare il 65% della somma pattuita con la Fondazione, cioè l’azionista unica del Banco fino alla vendita del 2001. L’operazione valeva 366.532.106 euro, ma Bper ha pagato appena 128.684.447 euro». A seguire una sottolineatura: «Dobbiamo evitare le pericolose commistioni politica e banche, per riportare il tema del credito al centro del dibattito».
Venerdì mattina il capogruppo dei Quattro Mori ha incassato la prima vittoria, dopo aver accettato di trasformare la sua mozione in ordine del giorno. Il risultato è che il Consiglio regionale della Sardegna (a maggioranza pidiellina) ha votato all’unanimità l’istituzione di una Commissione speciale sul BdS, ovvero un istituto di credito storicamente governato dal centrosinistra. Vero che Sanna avrebbe preferito un organismo d’inchiesta, ma per lui conta il risultato finale. «Dopo decenni di silenzi, segreti e verità taciute – sottolinea il presidente del Psd’Az – la massima Assemblea della nostra isola accetta di confrontarsi su un tema chiave per lo sviluppo, visto che da lì passa l’accesso al credito». Sanna non arretra di un millimetro, e ribadisce: «E’ ora che ai sardi venga spiegato perché la Bper non ha ancora saldato il conto dell’acquisizione, e per quali ragioni la Fondazione ha deciso di comprare derivati Nomura».
Le mosse del Psd’Az obbligano a spulciare i conti del BdS. Oltre alle perdite, sono saliti i crediti deteriorati e le rettifiche. Il management ha fatto scattare l’allarme rosso imponendo «criteri molti rigorosi nell’accertamento, in linea con gli orientamenti manifestati di recente dalla Banca d’Italia». Così si legge nella relazione che ha accompagnato l’approvazione del bilancio, votato il 12 marzo, mentre il Core Tier 1 (indica la solidità patrimoniale di una banca) del BdS nel 2012 è salito all’11,17%, contro il 9,93% del 2011. Di certo, la sub holding della Bper sta pagando un prezzo altissimo per i prestiti malati, pari a «1.445,4 milioni (1.182 nel 2011), con rettifiche di valore per 948,8 milioni (778,8 nel 2011) e un grado di copertura complessivo al 39,6% (è l’incidenza degli accantonamenti già fatti sul totale del credito».
Nel dettaglio, le sofferenze (quando i debitori sono insolventi, ndr) sono cresciute nel 2012 «del 16,2% fino a una quota netta di 548,6 milioni (erano 472,3 nel 2011, quando l’aumento fu già del 19,8% rispetto al 2010)». Tuttavia, ha scritto il presidente Franco Antonio Farina «si mantiene ancora molto elevato il grado di copertura, al 58%». Sempre nel 2012, gli incagli (prestiti restituiti in ritardo) sono aumentati a «695 milioni (529,8 milioni nel 2011) con un indice di copertura al 19,8%». I crediti ristrutturati (quelli già contabilizzati nelle perdite) sono passati «dai 37 milioni del dicembre 2011 ai 43,2 di fine 2012 (grado di copertura al 17%)». Sul fronte dell’esposizione lorda, «nel 2012 i deteriorati valevano 1.822 milioni (1.508 nell’esercizio 2011), con un indice di copertura al 43,6% e una valore netto di 1.028 milioni». Il contesto sardo non aiuta: le imprese sono senza più liquidità, nell’Isola continua a crescere la disoccupazione, ormai al livello record del 15%. Ci sono poi i 680mila sardi che vivono con meno di mille euro al mese e i 23mila che vanno avanti grazie agli ammortizzatori sociali in deroga.
Il Psd’Az, che sino a due settimane fa governava la Regione insieme al centrodestra (poi l’uscita dalla giunta Cappellacci e la maggioranza scaricata), sente di avere il pallino in mano. E alza la posta, aggiungendo nella propria agenda politica la “controacquisizione” del Bds. Non solo: Sanna toglie il tappo dai derivati Nomura per evitare sorprese da qui all’estate. E precisa: «Ai 56 milioni di titoli giapponesi si sommano i 10 che la Fondazione ha speso per acquistare derivati Unipol». Poi la lancia spezzata in favore dei dirigenti interni al Bds: «Gli emiliani – osserva il presidente-capogruppo – sono preferiti ai sardi, sebbene anche la nostra Isola possa vantare preparatissimi tecnici».
Sulla scia di Sanna si muove Giovanni Colli, il segretario del Psd’Az che ammonisce la Giunta sarda: «Con la Finanziaria 2013 ancora da approvare, dal Fondo unico per gli enti locali saranno tagliati 50 milioni. Ma se ne prevedono 102 per una serie di interventi che vanno a sostenere anche l’accesso al credito, favorendo di fatto la spirale delle banche». Colli parla di una «pericolosa contraddizione, ancor più dannosa in tempo in cui la Bper non dimostra alcuna attenzione verso i sardi e le imprese dell’Isola. Anzi: gli emiliani falcidiano i servizi e riducono i posti di lavoro, con un presumibile inasprimento dei parametri per contrarre mutui, quindi realizzare nuovi investimenti».
Insomma, i riflettori sul Banco sono destinati a rimanere accesi, anche in virtù di un altro particolare scoperto sempre dal numero uno del Psd’Az. «L’attuale presidente della Fondazione (Antonello Arru, nuorese, avvocato di professione, ndr) – si legge nell’Ordine del giorno – ha sottoscritto un nuovo patto parasociale con la Bper». Ovvero, un accordo che, a sentire il consigliere regionale, sposta l’ago della bilancia a favore dell’istituto emiliano. «Tra le clausole – osserva Sanna – ce n’è una che garantisce alla Bper il diritto di prelazione sulle azioni del Banco eventualmente cedute dalla Fondazione, senza che per quest’ultima si conoscano benefici e vantaggi». Il presidente del Psd’Az non lo dice, ma è evidente che leghi questa postilla alla prossima nomina ad Arru. Non fosse altro che l’avvocato, ex democristiano, ultimo segretario sardo del Partito popolare italiano, da mesi avrebbe l’ufficio pronto in BdS, dove viene dato come presidente in pectore.
Quanto basta per riportare indietro l’orologio del BdS fino al 2000, anno in cui cominciò la trattativa tra l’istituto sardo e la Bper. Fu la Banca d’Italia (Fazio governatore) a suggerire l’ingresso di un azionista “pesante”, «con standing adeguato». Così dopo due ispezioni (una nel ’94, l’altra nel ’98), raccontate nell’Aula di Montecitorio dall’allora deputato Beppe Pisanu. Era il 5 febbraio del 2001. Pisanu, con un’interpellanza protocollata l’11 gennaio, spiegò che già dagli anni Novanta al Banco di Sardegna venne imputata «una strutturale debolezza economica, con qualità del credito scadente ed eccedenza di personale (la stima era di 600 esuberi)».
Ragion per cui dalla Vigilanza di via Nazionale spinsero per il risanamento che, tuttavia, aveva già preso avvio nel ’92 incorporando la Banca popolare di Sassari, di cui oggi il BdS detiene il 79,72%. Sanna non perde un colpo nemmeno su questo fronte: «Qualcuno dovrà spiegare perché la Popolare di Sassari venne ceduta senza convocare l’assemblea dei soci. Il salvataggio valeva 50 miliardi di vecchie lire, soldi che si sarebbero potuti recuperare chiedendo meno di due milioni (sempre in lire) a ciascuno dei 27mila azionisti sardi. Invece si preferì un’altra strada, ma anche sulla legittimità di quell’atto pretendiamo chiarezza».
Resta il fatto che al Banco non bastò acquisire la Bps per risalire la china. Quindi il passaggio obbligato sotto l’egida della Bper. In Sardegna, però, si sollevò un polverone, visto che l’operazione con gli emiliani venne deliberata dalla Fondazione «senza nemmeno informare la Giunta regionale», accusò Pisanu nel 2001. Tanto che Mariolino Floris, l’allora presidente dell’Eseccutivo sardo, parlò di «inquietanti risvolti», come ricordò Pisanu alla Camera. Ma a quella presa di posizione non seguirono esposti. Né denunce. Non solo: l’ex parlamentare chiese l’impegno del Governo (il premier era Berlusconi) per ottenere le dimissioni del management in carica. Alla BdS c’era Bastianino Brusco, mentre le redini della Fondazione le aveva Vanni Palmieri. Entrambi vennero accusati dal sassarese Pisanu di aver «rotto i rapporti con la Regione, partner strategico e di vitale importanza per il futuro incerto dello stesso Bds». Non solo: l’allora deputato rilanciò pure sullo Statuto della Fondazione, un documento «che non fu approvato – disse – nei termini imposti dal Decreto legislativo 153 (quello che ha disciplinato la privatizzare delle banche dopo la legge-delega Amato-Carli del 1990).
C’è poi la battaglia fuori dal Consiglio regionale. Giacomo Meloni, segretario della Confederazione sindacale sarda, sottolinea: «Io non so dire se, ed eventualmente a chi il Banco abbia erogato negli anni prestiti a tassi vantaggiosi, favorendo magari alcune aziende a scapito di altre. Di certo, la Fondazione ha investito molte risorse nell’acquisto di immobili. Ma in base a quali criteri ciò sia avvenuto, non è dato saperlo». A inizio 2013, Meloni ha scritto un dossier sul Bds e sulla Fondazione. L’ha fatto insieme agli indipendentisti di “Sardigna Natzione” e di “A Manca”, per poi consegnare il plico al presidente della Regione.
Adesso il segretario aggiunge: «Quello che si prospetta per la Sardegna è finire relegata al ruolo di Cenerentola proprio in casa propria, cioè nel BdS, la banca di tutta l’Isola». Quindi una paura confessata: «Se le quote della Fondazione in Bper scenderanno sotto la soglia del 20%, saranno gli emiliani a scegliere i componenti del Cda». Cristiano Sabino, segretario di “A Manca”, torna sul Piano industriale 2012/2014, bollandolo come «un’operazione lacrime e sangue, col Pd complice dei tagli, visto che nell’Isola chiuderanno 67 filiali (sulle 380 attuale) e 235 dipendenti risulteranno in esubero (tra BdS e Banca di Sassari)».
Si arriva così all’ultimo intrigo che, ormai, è una costante nella storia del Banco. Infatti: se Arru sembra il presidente designato del BdS, il suo posto alla Fondazione dovrebbe prenderlo un altro Antonello, che di cognome fa Cabras, un ex socialista emigrato nel Pd, cagliaritano, bersaniano di ferro, senatore uscente, ex assessore regionale, ex governatore dell’Isola. Cabras ricoprì quest’ultima carica nei primi Anni Novanta, quelli della privatizzazione, proprio quando Idda chiese (e ottenne, era il ’93) la riconferma alla guida del BdS. Idda, di Ittiri (nel Sassarese), era un potentissimo democristiano di stretta osservanza cossighiana e lottava contro i basisti della Balena bianca per conservare il controllo del Banco. Lo fece da presidente, sino a trasformare quella poltrona da rappresentativa in operativa.
Come vada a finire l’ennesima staffetta politica, è presto per dirlo. Resta il fatto che la nomina del nuovo cda era all’ordine del giorno il 12 marzo, ma è saltata. In freezer resta pure l’investitura di Cabras, contro il quale si è messo di traverso Stefano Fassina. Cioè il responsabile economico del Pd nazionale (quota Giovani Turchi) che ha tacciato come «inopportuna» la sua nomina, invocando «la separazione tra politica e banche». Peraltro: l’alternativa a Cabras – battuto alle primarie 2010 dal vendoliano Zedda, attuale sindaco del capoluogo sardo – potrebbe essere Luigi Guiso, economista isolano di indubbio prestigio, un nome che metterebbe d’accordo tutti.
Una cosa è sicura: oggi, come allora, nel BdS continuano a comandare gli ex dc e gli ex socialisti, almeno quando le nomine sono politiche. Basta scorrere nomi e cognomi del managment finanziario per capire come la storia si ripeta. Al Banco, per esempio, il presidente è Farina, un ex Psi, al pari del consigliere nel Comitato esecutivo Antonio Gregorio Capitta: entrambi sono confluiti nel Pd. Di area democratica è pure Pier Paolo Falco, altro consigliere come Lucrezio Dalmasso, figlio di Ennio, l’imprenditore cagliaritano amico fraterno di Cossiga. Poi ci sono gli eredi dei grandi imperi economici. Intanto, Francesco Loi, l’architetto di quella famiglia che, partendo dalla Baronia, ha accumulato fortune grazie all’industria vacanziera; ma anche Giommaria Pinna, dell’omonimo caseificio con base a Thiesi, nel Sassarese. Insomma, il gotha delle aziende bazzica lì, in quel centro di potere dove sono stati presidenti (o direttori generali) genitori illustri di figli altrettanto celebri. Come Celestino Segni, padre di Antonio, o Giuseppe Cossiga, padre di Francesco.
Nella Fondazione le dinamiche non sono diverse: nel cda ecco l’ex socialista Franco Mannoni, ex assessore della giunta Psd’Az guidata da Melis (’84-’89), ma anche Francesco Soddu, figlio di Pietrino, altro ex potentissimo democristiano sardo. A ben vedere si tratta di caselle su cui conta solo un merito: l’indicazione giusta da parte dei partiti.