Dietro il pacchetto di mischia dei cardinali statunitensi, sbarcati a Roma con uno spirito da 1943, c’è il lavorìo di una grande organizzazione cattolica diventata sempre più forte e avviata a combattere fino in fondo la grande battaglia delle influenze. Il suo leader, anzi Cavaliere Supremo, ha avuto un ruolo di primo piano nel ribaltone al vertice dello Ior, la banca del Vaticano. Si chiama Carl Anderson, guida i Cavalieri di Colombo, azionisti di riferimento della Santa Sede spa, e siede nel consiglio di amministrazione della banca vaticana.
I porporati a stelle e strisce arrivano con lo spirito della liberazione dalle trame perverse che hanno portato la Chiesa a uno dei punti massimi di crisi nella sua storia, un vento fresco dall’Atlantico destinato a spazzar via i miasmi della palude pontina. E i Knights of Columbus puntano ad avere un ruolo di primo piano, scalzando soprattutto l’Opus Dei che dai tempi di Giovanni Paolo II in poi era salita in cima alla lista. Secondo alcune fonti, lo schema dei Cavalieri sarebbe questo: un papa statunitense e un segretario di Stato italiano. E la partita forse ancor più importante è la seconda.
Il candidato americano più forte sembra il cardinale di New York, Timothy Dolan, collocato in pole position da tutti i vaticanisti. Ma si sa che chi entra papa quasi sempre esce cardinale. Poi c’è il cappuccino di Boston, Patrick O’ Malley. Sarebbe un pontefice carismatico e spirituale alla Wojtyla, magari senza l’impareggiabile dote politica del papa polacco. Dunque, con il francescano che ha saputo attirarsi in questi giorni la simpatia di mezza Roma (la disincantata Roma), ci sarebbe una gestione più collegiale, un presidente del consiglio della Chiesa che delega i poteri di gestione all’amministratore delegato.
Decisivo diventa, allora, quale Ceo accompagnerà il Chairman. C’è chi dice che deve essere un papabile, una figura forte. E dagli identikit emerge con sempre maggior frequenza l’immagine di Angelo Scola il quale arriva in Conclave già con un pacchetto di 50 voti che lo rende uno dei candidati più forti per il Pontificato. L’arcivescovo di Milano, molto vicino ai fondatori di Comunione e Liberazione, ha una grande capacità di governare gli uomini, considerato un conservatore in dottrina e un riformatore nella gestione degli affari ecclesiastici; potrebbe suggellare una nuova alleanza e un diverso equilibrio tra i gruppi di pressione, anche quelli economici.
Letto così, il Conclave dovrebbe essere analizzato non dagli uomini di Chiesa né dai vaticanisti, ma dagli economisti della Public Choice o dai politologi alla Joseph LaPalombara. E tuttavia, la desacralizzazione del papato, giù giù fino ai sotterranei del Vaticano, richiede categorie e paradigmi interpretativi diversi da quelli tradizionali.
C’è davvero un filo, dunque, che lega il Conclave e lo scontro per il controllo dello Ior? Certo che c’è, anzi sono molti i fili che compongono la matassa dei Vatileaks e del rapporto riservato ordinato da Benedetto XVI e a disposizione degli elettori. Ma ce n’è anche uno più sottile, di norma impalpabile, che conduce alla vasta galassia di gruppi di pressione, di lobby, di potentati in cui si organizza il rapporto tra l’amministrazione della Chiesa e i suoi molteplici interessi mondani. Una galassia in ebollizione. Un tempo c’erano gli ordini monastici, poi le strutture ecclesiastiche, ormai da molti decenni, si conduce un gioco di influenze tra organismi che rappresentano il trait d’union tra sacro e profano.
Anche nella crescita dell’Opus Dei, del resto, c’entra lo Ior. O meglio, la sua ricostruzione dopo la catastrofe della banca vaticana coinvolta nel crac di Roberto Calvi (il banchiere di Dio) e prima ancora collegata alle disavventure di Michele Sindona (il banchiere di Cosa Nostra). Erano i tempi in cui comandava monsignor Paul Marcinkus (è stato presidente dello Ior dal 1971 al 1989), anche lui prelato a stelle e strisce. Quando morì a Sun City in Arizona, nel 2006 furono i Cavalieri di Colombo a montare la guardia d’onore al feretro, tutti in smoking nero, mantello e feluche, tre bianche dei portacolori e una viola da comandante assembleare.
Tra i personaggi eminenti nel nuovo risiko delle influenze, dunque, va tenuto d’occhio in particolare Carl Anderson. Il 13esimo Cavaliere Supremo ha 62 anni e una lunga carriera politica, cominciata come assistente del senatore Jesse Helms, storico leader conservatore dal 1976 al 1981 e consolidata alla Casa Bianca con Ronald Reagan, ricoprendo vari incarichi nell’ufficio esecutivo del Presidente degli Stati Uniti. Laureato in filosofia a Seattle e in legge a Denver, ha fatto parte della commissione americana per i diritti civili. Membro dei Cavalieri di Colombo, dal 1983 al 1988 ha insegnato diritto familiare alla Pontificia università lateranense e da allora non ha più lasciato le stanze del Vaticano. Giovanni Paolo II nel 1998 lo ha nominato all’Accademia pontificia per la vita, Benedetto XVI membro del consiglio pontificio per la famiglia, insieme alla moglie Dorian. In quanto membro del consiglio scientifico internazionale dello Studium Generale Marcianum di Venezia ha avuto modo di conoscere e apprezzare Scola, patriarca della città lagunare.
Come Cavaliere Supremo della più grande organizzazione cattolica di servizio fraterno con il suo milione e 800 mila membri e una notevole potenza di fuoco finanziaria (solo le polizze vita superano 80 miliardi di euro e ne fanno una più solide compagnie di assicurazione d’America), guadagna un milione e 200 mila dollari. Ricco e potente, dunque. Ma la nomina nel consiglio dello Ior nel 2009 lo ha proiettato davvero nel grande gioco. Che ha condotto senza andar troppo per il sottile contro Ettore Gotti Tedeschi (è sua la lettera del 24 maggio scorso con le nove accuse che sfiduciano il banchiere del Santander, vicino all’Opus Dei).
Per la presidenza dell’istituto, è prevalso un altro cavaliere, il tedesco Ernst von Freyberg dell’Ordine di Malta. Ma Anderson non poteva avere di più e resta al suo posto, mentre viene rifatto, subito dopo le dimissioni di Benedetto XVI, l’intero consiglio. La vicenda scotta ancora, tanto che alla congregazione dei cardinali, il Camerlengo Tarcisio Bertone è stato bersagliato da un fuoco di fila per chiedere chiarimenti sul cambio al vertice e soprattutto sulla scarsa trasparenza dell’istituto, che resta la questione chiave.
Magari il nuovo papa non sarà statunitense né americano. Magari tornerà un italiano con il mandato di creare un nuovo ordine dal caos di questi ultimi due anni. Ma in questo nuovo assetto, i Cavalieri vogliono avere un posto di primo piano.