Il villaggio delle madri senza marito

STORIE Dopo la guerra in Vietnam hanno chiesto agli uomini di avere un figlio

Madri senza marito e figli senza padri. Trent’anni fa, in un piccolo villaggio del Vietnam, la determinazione di un gruppo di donne a diventare madri ha rovesciato secolari regole di genere. Le donne escono per lavorare nei campi, preparano da mangiare, allevano i bambini. Ad aspettarle a casa, nessun marito. Sono le madri della guerra del Vietnam, come racconta un reportage del New York Times, quelle che hanno accettato di avere un figlio da uomini che non dovevano essere i loro uomini. I pochi soldati di ritorno dal conflitto sceglievano di prendere in sposa le ragazze più giovani. Alle altre, la guerra aveva portato via anche la giovinezza, condannandole a una vita di solitudine. Ma alcune di loro si ribellarono.

All’inizio degli anni Sessanta, in Vietnam le ragazze si sposavano intorno ai 16 anni. Se a vent’anni non avevano ancora un marito, venivano considerate qua la, cioè “oltre l’età da matrimonio”. Ma gli anni sotto i bombardamenti passavano e per molte il confine del qua la arrivava. Quando gli uomini sopravvissuti alla guerra tornavano a casa, alle qua la preferivano le più giovani. Aggravando di fatto una situazione demografica già sbilanciata a causa delle elevata mortalità maschile in guerra. Secondo il censimento della popolazione del Vietnam del 2009, dopo la riunificazione del Paese nel 1979, c’erano in media 88 uomini per ogni 100 donne tra i 20 e i 44 anni.

Ma a differenza delle precedenti generazioni, quando le donne vietnamite indesiderate accettavano il “destino” di una vita solitaria, un gruppo di donne ha invece deciso di voler cambiare la situazione. Se gli uomini non le desideravano, l’unica richiesta che avevano da fare era quella di poter diventare madri. Avevano sopportato la guerra, avevano sviluppato una nuova forza ed erano determinate ad avere dei figli.

Così, una dopo l’altra, hanno chiesto ai loro concittadini, agli amici, ai parenti di aiutarle a concepire un figlio. La pratica divenne nota come xin con o “chiedere un bambino”. Significava rompere con la tradizione, affrontare le discriminazioni in un Paese tradizionalista e sopportare le difficoltà di allevare un figlio da sole.

«È stato insolito e davvero straordinario», ha dichiarato Harriet Phinney, professore assistente di antropologia all’Università di Seattle, esperta della società vietnamita. Concepire un figlio fuori dal matrimonio era un atto rivoluzionario. È stato un atto di coraggio delle madri, ha detto Phinney. Ma anche la reazione di una società in cui nel dopoguerra già molte vedove erano state condannate a crescere i propri figli da sole. 

I nomi dei padri sono rimasti sconosciuti. Questo segreto era il prezzo che le madri di Loi avebbero dovuto pagare. Una delle prime donne del villaggio a chiedere un bambino è stata Nguyen Thi Nhan, che ora ha 58 anni. Lei era stata alla guida di un plotone di donne nel corso della guerra di indipendenza dalla Francia, aggiudicandosi anche una medaglia al valore. Suo marito, con il quale aveva avuto una figlia, abbandonò lei e la piccola dopo la guerra. La signora Nhan comprò un piccolo appezzamento di terra, il più economico che riuscì a trovare. Un campo nella periferia di Loi, dove vivevano ancora alcuni rifugiati.

Ma dopo la fine del conflitto, desiderava ancora un figlio maschio. E lo chiese. I primi anni erano duri, racconta. Nonostante il lavoro e la fatica, cibo e soldi erano scarsi. Gli abitanti del villaggio, che all’inizio la guardavano con sospetto, alla fine accettarono la sua condizione di mamma single. Con il tempo, Nguyen è stata raggiunta a Loi da altre dodici donne. Come Nguyen Thi Luu, che si era innamorata di un soldato ucciso in guerra nel 1972.  

«Avevo 26 anni quando la guerra è finita», racconta. Troppo “anziana” per potersi sposare, secondo le tradizioni locali. «Non volevo sposare un uomo vecchio e cattivo, e nessun uomo giovane non sposato voleva me». Ma desiderava lo stesso diventare madre. In questo modo avrebbe avuto anche un supporto per la sua vecchiaia. In Vietnam, le case di cura sono molto rare e l’assistenza agli anziani è considerata un dovere dei figli. «Avevo paura di morire da sola», racconta al New York Times. «Volevo qualcuno a cui appoggiarmi nella mia vecchiaia. Volevo un figlio tutto per me». Dopo un primo periodo di difficoltà, i suoi genitori le hanno poi comprato un appezzamento di terra a Loi, nel villaggio che era ormai diventato noto come la comunità delle donne. «È stato confortante vivere in un gruppo con altre donne che condividevano la mia stessa situazione», racconta. 

Intanto, anche fuori da Loi altre donne cominciavano a prendere la stessa decisione. Un fenomeno che ha catturato l’attenzione dell’Unione delle donne, l’agenzia governativa che si occupa della situazione femminile nel Paese. «Molte donne hanno dato tutto durante la guerra, ed è importante riconoscere il loro sacrificio», ha detto Tran Thi Ngoi, capo dell’Unione.

Nel 1986 il governo di Hanoi ha approvato la legge sul matrimonio e la famiglia, che per la prima volta ha riconosciuto le ragazze madri e i loro bambini come giuridicamente legittimi. Una vittoria per le madri di Loi, e per altre come loro. «Ogni donna ha il diritto di essere una moglie e una madre, e se non riesce a trovare un marito, dovrebbe ancora preservare il diritto di avere un figlio», ha dichiarato Ngoi.

Da allora il governo ha lavorato in collaborazione con le organizzazioni internazionali, continuando a spingere nella direzione della parità dei diritti delle donne, per migliorare le loro condizioni di salute e di istruzione. Il fenomeno delle madri single, ormai, è diventato caratteristico del Paese. Tanto che ad Hanoi è stato cosituito il Museo delle donne vietnamite, con una installazione fotografica che racconta le “voci delle madri single”.

Intanto, alcune cose sono cambiate. Nel villaggio di Loi quattro delle 17 donne che fondarono la comunità sono andate via. Tre sono morte, altre sono andate a vivere con i loro figli in altri villaggi, altre ancora con uomini rimasti vedovi. A Loi, ora, le capanne non sono più capanne, ma sono diventate delle vere e proprie case. I figli, ormai cresciuti, sono andati via a lavorare. E ora inviano parte dei loro stipendi alle madri. Le donne che li hanno voluti a tutti i costi. «Nessuno poteva farmi cambiare idea», dice una di loro. 

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