Corre veloce, in Italia, il tempo degli umili. Imminente è la data del primo gennaio 2014, termine in cui gli oltre tre milioni di poveri assoluti del nostro Paese potrebbero perdere l’accesso al cibo prima distribuito dagli enti caritativi. Se la maggior parte delle risorse per finanziare le extra produzioni di alimenti a fini sociali era prima messa a disposizione dall’Ue – per un totale di 500 milioni di euro – una sentenza della Corte di giustizia, seguita a un appello della Germania, ha stabilito la fine del PEAD, il programma europeo per gli aiuti alimentari. A partire dall’anno prossimo, il sostegno alle strutture caritative sarà per la maggior parte di competenza dei singoli Stati. Risposte soddisfacenti sul piano normativo non sono dunque più rimandabili, pur nel quadro incerto della politica italiana.
«Dopo un intenso lavoro di lobbying in Europa da parte delle organizzazioni non profit – racconta a Linkiesta.it Andrea Giussani, presidente del Banco Alimentare italiano – si è arrivati all’approvazione di una nuova misura di aiuto ai poveri che prevede 2,5 miliardi di intervento dal 2014 al 2020». Una nuova voce nel bilancio dell’Ue che però non riguarda più solo il settore agro–alimentare, ma quello sociale in generale. «Questo potrebbe dare vita a una forma di “concorrenza” tra diversi settori di intervento: dall’educazione, al vestiario, dall’avviamento al lavoro alla distribuzione di cibo». «Inoltre – continua – l’Europa si è nel tempo estesa a nuovi Paesi. Mentre prima si operava, con 500 milioni, in venti Stati facenti parte dell’Unione, dal 2014 si dovranno distribuire cento milioni in ventotto nazioni».
Per dare un dato che faccia comprendere il livello di allarme, al sud, le organizzazioni caritative che si appoggiano al Banco alimentare dipendono quasi totalmente (dal 75 al 90 per cento) dai finanziamenti per le eccedenze dell’Unione europea. L’accesso ai beni di prima necessità, per chi ne ha bisogno, potrebbe essere quindi gravemente compromesso dai tagli di risorse.
In vista dell’imminente scadenza, le organizzazioni non profit hanno battuto la strada di un intervento in capo allo Stato italiano. Nei mesi scorsi, il ministro dell’Agricoltura uscente ha stanziato un fondo a favore del contrasto alla povertà alimentare, istituito dall’Agea e contenuto nel Decreto Sviluppo, oltre a una serie di benefici fiscali. «Senza un governo stabile però, rischiamo di rimandare le tematiche di normativa legate a quanto stabilito dal ministero dell’Agricoltura. Oggi la lista di attesa delle strutture caritative che vogliono essere convenzionate con noi è aumentata enormemente. Se la situazione dovesse rimanere quella che è, dovremmo tagliare parte degli alimenti che attualmente destiniamo agli enti, e quindi alle famiglie, oppure ridurre il numero delle strutture con cui operiamo».
In Italia però si spreca anche molto cibo, sia a livello di filiera agroalimentare, che di singole famiglie, almeno stando ai risultati della ricerca “Dar da mangiare agli affamati. Le eccedenze alimentari come opportunità” realizzata da Fondazione per la Sussidiarietà e Politecnico di Milano in collaborazione con Nielsen Italia (Ed. Guerini e Associati). Secondo lo studio, le eccedenze alimentari generate ogni anno nel nostro Paese sono 6 milioni di tonnellate, per un valore monetario di circa 13 miliardi di euro. La ricerca, che verrà presentata il 25 aprile in sede europea, ha però il merito di fare luce sul corretto utilizzo di alcuni termini, come spreco e scarto. Ma soprattutto chiarisce il concetto di fungibilità, caratteristica di quelle eccedenze che, a differenza di quelle inutilizzabili, potrebbero essere recuperate e distribuite a chi ha bisogno.
Sul totale di 6 milioni di tonnellate di cibo sprecato, solo il 54 per cento – pari a 3,2 milioni di tonnellate – è ad alta o media fungibilità, e riguarda principalmente la filiera che va dalla produzione alla distribuzione, fino ai cosiddetti Horeca (ovvero cibo recuperabile da hotel, ristoranti e catering). «La famiglia – spiega Giancarlo Rovati, direttore del dipartimento di sociologia dell’università Cattolica di Milano – è certamente responsabile della metà dello spreco italiano. Ma il cibo che viene scartato a livello di singolo nucleo non è recuperabile se non a costi altissimi».
I settori su cui bisognerebbe agire urgentemente per allargare la quota di ciò che potrebbe essere recuperato sono quindi il primario, quello della trasformazione dei prodotti e quello della grande distribuzione. «Il problema dello spreco in famiglia – continua Giussani – è importante più a livello etico ed emotivo, ma certo non è lì che le organizzazioni possono agire per aiutare chi ha bisogno».
Un’attivazione capillare di forme di volontariato, che operino là dove i banchi alimentari non riescono per problemi di logistica potrebbe essere invece un’alternativa preferibile. «Si potrebbe per esempio mettere in vita forme di solidarietà per ridurre lo spreco a livello base, come recuperare le eccedenze di un panificio e poi distribuirle a tre o quattro famiglie: un lavoro di cui il volontario si farebbe carico singolarmente». «Non bisogna sottovalutare – continua Rovati – l’importanza dell’aspetto della relazione che si crea tra la persona in difficoltà e chi fa volontariato. È solo con il contatto umano che chi aiuta può comprendere e provare ad affrontare i problemi più profondi che stanno dietro alla malnutrizione di un individuo o di una famiglia, siano essi legati alla perdita del lavoro, alla mancanza di istruzione, oppure a problemi psicologici e familiari».