L’eterna lotta della Cina contro le tempeste di sabbia

Ogni anno il deserto inghiotte 10mila chilometri quadrati

I cinesi le chiamano «Dragoni gialli». Tra i coreani, invece, sono note con il nome di «Quinta stagione». Puntuali come ogni anno, con l’arrivo della primavera e l’aumento delle temperature le terribili tempeste di sabbia che hanno origine nel Deserto del Gobi cominciano a soffiare sul Nord Est della Cina, tormentando le province dell’Hebei e dello Shanxi, assediando Pechino e Tianjin e spingendosi fino alla vicina Corea.

Trasportate dal vento, le polveri e le sabbie desertiche della regione ai piedi dei monti Altai coprono i cieli di città e villaggi, oscurando il sole, spandendo una sottile coltre giallastra sopra case, strade, negozi e ospedali, togliendo la vista e il respiro a decine di milioni di persone. 



L’ormai decennale lotta intrapresa dal governo cinese per contrastare il fenomeno a colpi di riforestazione (il primo progetto, quello della Grande Muraglia Verde, data 1978) ha prodotto fino a questo momento alcuni risultati, senza riuscire tuttavia a bloccare l’avanzata del deserto, che, animato dalla stessa impetuosa ferocia delle truppe mongole di Gengis Khan, ogni anno inghiotte un’area che secondo le fonti citate dal Guardian è di poco inferiore ai 10mila chilometri quadrati.

Un avversario silenzioso e letale, per sconfiggere il quale la dirigenza del Partito comunista cinese, sempre più consapevole dell’importanza che le risorse ambientali rivestono nella sfida per la crescita, ha deciso di aumentare drasticamente le forze fino a questo momento schierate in campo.

Proprio in questi giorni i rappresentanti della Mongolia Interna hanno chiesto al National people’s congress di incrementare il budget destinato al Sandstorm source control project, che prevede la riforestazione di milioni di ettari di terreno desertico nelle zone intorno alla capitale e al suo hub portuale Tianjin.

Nella prima fase del progetto, avviata nel 2000 e conclusasi lo scorso dicembre, la prefettura di Xilingol, una delle dodici in cui è suddivisa la Mongolia cinese, ha coperto di praterie 2,17 milioni di ettari, piantando 800 chilometri quadrati di alberi e strappando dalle grinfie del deserto un’area pari al 37 per cento del suo territorio.

Ma come sottolineato da Liu Junchen, deputato del Npc e capo della prefettura, per quanto mirabili gli sforzi compiuti fino a questo momento devono essere ulteriormente accresciuti se si vuole arrivare a risultati di rilievo nella lotta contro l’inaridimento del Nord Est.

Il governo centrale prevede per quest’anno un investimento di 6 miliardi di yuan (circa 740 milioni di euro), da destinare all’avvio della seconda fase del Sandstorm source control project. Da qui al 2022 i fondi saranno progressivamente aumentati, per un valore complessivo che dovrebbe sfiorare gli 87,8 miliardi di yuan (10,9 miliardi di euro). Cifre importanti anche per il colosso asiatico, riservate a un obiettivo che nella sua recente relazione annuale al Npc l’ex premier Wen Jiabao ha definito «strettamente collegato allo sviluppo del Paese».

Non a caso anche l’amministrazione di Pechino e quella della prefettura dell’Hebei hanno annunciato interventi di rilievo in questa direzione. La capitale, che già l’anno passato ha piantato 16mila ettari di alberi, ha programmato di coprirne altri 23mila entro dicembre, moltiplicando le aree verdi intorno al centro urbano. Mentre la Commissione municipale per la scienza e la tecnologia è impegnata a elaborare i dettagli di quello che è stato presentato alla stampa locale come il «Blue sky capital action in ten years», e che prevede l’attivazione di nuovi sistemi, ancora non ben definiti, per migliorare la qualità dell’aria e combattere l’inquinamento atmosferico prodotto dallo smog e dalle polveri del deserto.

Parallelamente, come reso noto nei giorni scorsi dal dipartimento locale delle Foreste, la provincia inizierà la realizzazione di una nuova cintura verde, che dovrebbe coprire un’area di 280mila ettari, e lancerà 10 progetti green su larga scala, con l’obiettivo di arrivare entro il 2015 a rinverdire una zona di 5,8 milioni di ettari. «I progressi compiuti nella lotta alla desertificazione durante l’11esimo piano quinquennale sono stati i maggiori mai raggiunti. Durante il 12esimo, però, (che si concluderà nel 2015, ndr) dobbiamo fare di più», ha spiegato Liu Fengting, vice direttore del dipartimento delle Foreste.

Eppure, malgrado le energie profuse, la battaglia contro i Dragoni gialli potrebbe rivelarsi molto più ardua del previsto. Ne è convinto un numero crescente di scienziati ed esperti di ambiente, che attraverso studi e analisi stanno cercando di dimostrare come l’attività di riforestazione portata avanti fino ad oggi nelle regioni nordorientali del Paese della Grande Muraglia sia destinata al fallimento.

Il motivo, a detta degli addetti ai lavori che si oppongono ai progetti di rimboschimento finanziati da Pechino, è evidente: gli alberi e le piante scelti per rinverdire il territorio sono organismi che mettono molto facilmente radici e crescono in fretta, ma non essendo nativi della zona nel lungo periodo hanno scarse possibilità di sopravvivere e sono destinati a produrre danni consistenti all’ecosistema locale, alterandone irreparabilmente gli equilibri.

Jiang Gaoming, un ecologista dell’Accademia cinese delle scienze, è stato tra i primi a interrogarsi sugli effetti che la riforestazione con piante non autoctone può avere. Nei suoi scritti si è sempre mostrato estremamente critico circa le concrete possibilità di successo di questi progetti. La Grande Muraglia Verde, ufficialmente chiamata Three north shelterbelt forest program, è stata bollata da Jiang come una “fiaba per bambini”, un piano che non ha alcuna speranza di riuscita, portato avanti a scopo propagandistico per mostrare al popolo i continui sforzi compiuti dalla dirigenza comunista verso il progresso e lo sviluppo.



Un giudizio condiviso anche da Shixiong Cao, scienziato della Beijing Forestry University, che ha pubblicato insieme ad altri cinque colleghi sulla Earth Science Reviews uno studio nel quale sottolinea che l’85 per cento circa dei semi piantati nel Nord Est non produce alcunché. E anche nel caso di nascita di un vegetale, sottolineano gli studiosi, le possibilità che una pianta o un albero proveniente da un altro ecosistema possa adattarsi al clima locale sono piuttosto scarse.

La maggior parte della flora muore a causa della scarsità d’acqua e quella che riesce a sopravvivere spesso lo fa a detrimento di quella autoctona. Come avviene ad esempio per gli alberi d’alto fusto, che si allungano sopra gli altri finché i loro rami formano una cappa d’ombra che blocca i raggi del sole e impedisce la fotosintesi delle specie che vivono più in basso.

Gli scienziati, comunque, non si sono limitati alle critiche. Molti hanno anche cercato di capire se esiste un sistema alternativo per favorire la riforestazione. Uno degli ultimi in ordine di tempo è stato Jianchu Xu, scienziato del World Agroforestry Centre e professore del Kunming Institute of Botany, che in un articolo apparso su Nature ha spiegato come le piante autoctone, sebbene richiedano tempi molto più lunghi per il proprio sviluppo, siano maggiormente adatte alla preservazione degli equilibri ecosistemici.

Jianchu ha inoltre richiamato l’attenzione sul fatto che la scelta delle specie da piantare è molto spesso dettata più da logiche commerciali che da considerazioni ambientali e scientifiche. Si tende infatti a preferire piante che possono essere utilizzate dall’industria tessile, della carta o alimentare, con vantaggi per il portafogli ma gravi danni per l’ambiente.

L’unica soluzione, ha ribadito più volte Jiang Gaoming, è «coltivare la terra con la terra stessa», impiegando esclusivamente alberi e piante nativi della zona. In un’area della Mongolia Interna un piccolo team guidato dallo scienziato ha utilizzato esemplari locali per rinverdire una piccola porzione di terreno. Uno sforzo durato due anni ma che ha dato, a detta di Jiang, ottimi risultati, destinati a durare nel tempo.

Anche a livello di amministrazione centrale qualcosa ha cominciato a muoversi. Grazie a una partnership avviata tra Conservation international e il China’s center for nature and society, è da poco partito un progetto per rinverdire con specie native un’area di 12mila ettari nel Sud Ovest, comprendente conifere, boschi di latifoglie, praterie, zone umide e boschi di bambù. E l’Amministrazione statale delle foreste ha iniziato a collaborare con la Climate community and biodiversity alliance, Nature conservancy e Rainforest alliance per l’avvio di programmi analoghi.

Uno dei primi dei piani di lavoro proposti è quello di rinverdire oltre 10.000 ettari di terreni forestali gravemente degradati in cinque contee della provincia del Sichuan, in un’area che le agenzie per l’ambiente cinesi hanno classificato hotspot biologico e che comprende anche l’habitat del panda gigante. Il tutto attraverso l’uso esclusivo di specie locali di pioppi, abeti, ontani e cedri della Cina.

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