Il disagio sociale in Europa è sempre più acuto. Più della metà delle famiglie (Scandinavia e Germania escluse) dichiara che non ce la farebbe a sostenere una spesa inaspettata di mille euro nei prossimi dodici mesi, più di un terzo si definisce “povero”. Come stupirsi se elettori sempre più insicuri puniscono i leader in carica, si rifugiano nell’astensionismo, si lasciano sedurre dalle sirene populiste? E, ascoltando queste sirene, diventano euroscettici, fino al punto di usare l’Ue come capro espiatorio di tutti i problemi?
Le recentissime vicende di Cipro, quelle di Grecia e Spagna sono solo la punta di un iceberg che ha iniziato a colpire anche i paesi “virtuosi”. A Berlino, Amsterdam e Helsinki la fibrillazione (e la polarizzazione) politica intorno alle decisioni europee non era mai stata così alta: solo poco tempo fa nessuno avrebbe mai scommesso sul successo elettorale dei Veri Finlandesi o dei Piraten. I sondaggi segnalano che la disaffezione popolare nei confronti dell’Ue sta raggiungendo livelli di guardia. In Germania e in Grecia la percentuale di elettori che ritiene (per opposte ragioni) un “cattivo affare” l’appartenenza all’Ue è ormai vicino alla maggioranza assoluta. Nei sistemi partitici europei si registra una preoccupante proliferazione di formazioni euroscettiche: a destra, a sinistra, o di tipo trasversale.
L’Europa è caduta in una micidiale trappola politica. Per uscire dalla crisi, le autorità sovranazionali (soprattutto sotto spinta tedesca) hanno progressivamente centralizzato le decisioni economico-finanziarie. Governi e Parlamenti nazionali si sono adeguati, ma solo quando le onde dei mercati internazionali stavano per travolgerli. Le proteste contro le violazioni di sovranità e il “commissariamento” esterno si son fatte sempre più esplicite. I cittadini a loro volta s’indignano perché subiscono scelte che non capiscono, prese da soggetti che non sono stati eletti da loro. Il deficit democratico può sembrare poca cosa rispetto all’emergenza del debito, ma non è così. Il destino dell’Ue è legato a filo doppio alla tenuta dell’euro, ma entrambi presuppongono la tenuta della democrazia rappresentativa: no democracy, no Europe.
Si può uscire dalla trappola? I partiti euroscettici di matrice populista chiedono apertamente all’Ue di allentare la morsa sull’autodeterminazione democratica di popoli e nazioni che devono restare sovrane. In un mondo globalizzato il sogno gollista di un’Europa delle Patrie è ormai un ossimoro impraticabile. L’euroscetticismo di sinistra vagheggia un’Europa anticapitalista e giustiziera, con tanta partecipazione e poco (o niente) mercato. Un’utopia senza fondamenti economici, che non spiega come superare le diseguaglianze fra paesi e tace sul tema spinoso della sovranità.
La soluzione va ovviamente cercata in altre direzioni. Ciò che serve è un nuovo bilanciamento fra tre cardini della costruzione europea oggi in conflitto: integrazione economica, sovranità nazionale e democrazia politica. Se si vuole salvare l’integrazione, occorre cedere sulla sovranità, ma rilanciare sulla democrazia. Realizzare più integrazione attraverso il negoziato fra capi di governo, nell’illusione di salvaguardare l’auto-determinazione nazionale, significa condannare i paesi più piccoli o più vulnerabili ai diktat dei più forti.
Democratizzare l’Europa vuol dire innestare i principi di base della rappresentanza nel cuore decisionale dell’Unione. Non tanto o non solo per ragioni ideali, ma anche per ragioni di efficacia decisionale e di stabilità politica e sociale. Se è vero che la maggior parte delle questioni di rilievo viene ormai decisa a Bruxelles, le istituzioni nazionali rischiano di ritrovarsi a gestire una politica senza politiche, a dover fronteggiare le richieste dei propri cittadini-elettori e dunque la sfida del consenso senza più disporre degli strumenti e delle prerogative decisionali a tal fine necessarie. I rischi di questo scenario sono già ben evidenti: le arene politiche interne stanno diventando teatro di mobilitazioni neo-populiste contro governi e parlamenti accusati di essere inconcludenti e inefficaci, contro i “tecnocrati” di Bruxelles e i loro progetti di apertura, o, peggio, contro la politica tout court.
Come promuovere l’incontro fra il sistema decisionale Ue e le dinamiche “classiche” della partecipazione e del controllo democratico? Come riallineare il livello delle Politiche (quelle che contano) con quello della Politica (quella che conta), senza affossare il processo d’integrazione e i progetti di apertura? La prima mossa in questa direzione potrebbe essere, nel 2014, l’elezione diretta (o almeno indiretta, per il tramite dei Parlamenti nazionali) del presidente della Commissione (oggi Barroso), al quale eventualmente affidare anche il ruolo di presidente del Consiglio europeo (oggi Van Rompuy).
Il successo di questo primo passo dipenderà non solo dalla qualità dei candidati, ma anche dalla loro capacità (e da quella dei partiti che li candidano) di formulare progetti credibili di crescita inclusiva e fuoriuscita dalla crisi. Senza transigere sul rispetto dei vincoli di bilancio, le formazioni politiche pro-integrazione devono sforzarsi di promuovere un cambiamento di regole e politiche che consenta all’Ue di tornare ad agire come “forza gentile” di progresso e modernizzazione. Se ciò non avverrà, la vittoria degli euroscettici ci farà (forse) tornare più “sovrani”, ma solo per gestire un lungo e doloroso declino.
* Maurizio Ferrera è professore ordinario di Scienza politica all’Università degli Studi di Milano ed editorialista del Corriere della Sera. L’articolo è un estratto di Ispi Dossier