MILANO – La mimosa per la festa della donna l’hanno ricevuta anche Emina, Silvana e le altre, le madri detenute nell’Istituto a custodia attenuata del carcere San Vittore di Milano, l’Icam. Gliel’hanno regalata gli agenti della polizia penitenziaria che all’ingresso sorvegliano sui monitor, 24 ore su 24, quello che accade dentro e fuori la struttura. Qui, poco lontano dal centro di Milano, sorge l’unico istituto italiano a custodia attenuata che ospita le mamme recluse con bambini fino ai tre anni. Senza sbarre, senza celle, senza poliziotti in divisa. A scontare la pena sono solo le donne, e non i loro figli. O quasi.
La struttura di via Macedonio Melloni è un palazzone circondato da un cortile, con le mura di cinta più alte degli edifici intorno. All’interno vivono dieci madri e dieci bambini, gli unici a poter lasciare l’edificio almeno una volta al giorno. Per andare al nido, alla scuola materna. E anche al cinema, al teatro, al circo o alla festa di compleanno del compagno di banco. Ogni mattina, in fila indiana, varcano i tre cancelli di metallo dell’istituto in compagnia delle educatrici, diretti verso la scuola comunale convenzionata. Le mamme, invece, restano dietro le mura di quel cortile. Perché pur sempre di carcere si tratta, ripetono tutti. Solo una mamma è riuscita a ottenere dal magistrato di sorveglianza il permesso di accompagnare e andare a prendere il proprio bimbo a scuola. Un viaggio al mattino e uno al pomeriggio che sa di normalità. Molto più di un’ora d’aria.
L’Icam di via Macedonio Melloni
Il cortile dell’Icam
«I posti qui sono in tutto dodici», spiega Gloria Manzelli, direttrice del carcere, «ma non appena si raggiunge il tetto delle dieci presenze si comincia a star stretti». L’idea di realizzare una struttura del genere venne nel 2006 all’ex direttore di San Vittore, Luigi Pagano. Una mente illuminata, dicono tutti qui. L’intuizione è semplice quanto difficile da realizzare: è giusto che i bambini trascorrano i primi anni di vita in compagnia delle mamme, ma non dietro le sbarre di un carcere, tra i rumori di cancelli che si chiudono e le divise della polizia penitenziaria.
In Italia sono ancora una settantina i piccoli che vivono, e che spesso sono anche nati, in carcere. L’ordinamento penitenziario prevede che le madri possano tenere i figli con sé dietro le sbarre fino ai tre anni. Piccoli che condividono la detenzione, senza alcuna colpa, senza aver commesso nessun reato. Chi nasce e cresce in in una struttura penitenziaria soffre di gravi deprivazioni sensoriali, spiegano gli esperti. Nel 2011 la legge 62 ha modificato l’ordinamento del 1975, estendendo fino a sei anni l’età dei bambini incarcerati con le madri. A patto però che vivano in istituti a custodia attenuata. Ma finora esiste solo l’Icam. Per la mancata costruzione di strutture uguali in altre parti d’Italia la risposta è sempre la stessa: mancanza di fondi.
All’ora di pranzo le mamme dell’Icam siedono tutte attorno al tavolo di una stanza colorata. Le pareti, gialle, viola e verdi, le hanno imbiancate loro. La maggior parte dei bimbi oggi è rimasta a “casa”. Niente asilo. «Con questo freddo in tanti si sono ammalati», dice la dottoressa che lavora nella piccola infermeria della struttura.
Giochi nel cortile dell’Icam
Fuori piove a dirotto. Sono quasi le tre del pomeriggio ed Emina aspetta il ritorno della sua piccola Anita. Emina è nata a Sarajevo 24 anni fa. A due anni, è arrivata in Italia. Prima a Roma, poi a Milano. Dove ha studiato, ma solo fino alla seconda media. «La mia prima volta in carcere è stata a 14 anni», racconta, «stavo un mese, due mesi, uscivo e poi rientravo. Ma allora avevo solo papà e mamma. Ora che ho due figli è più dura». Ad aspettare Emina, e Anita, fuori ci sono suo marito, di 25 anni, anche lui bosniaco, e il loro figlio più grande, che compirà quattro anni a giugno. «Quando mi viene a trovare mi dice: “Mamma quando torni a casa?”. Io rispondo: “Tra venti giorni la mamma è a casa” e lui va via tutto contento». Ma Emina uscirà dal carcere tra un anno, nel 2014. «Sono qui dentro per tre quattro cose», dice, «che si sono accumulate». Ha due occhi grandi e neri, Emina. Un corpo esile e una collanina con un ciondolo rosso al collo. Quando racconta del «senso di colpa» che sente, quegli occhi grandi si fanno lucidi. «Mia figlia sta pagando con me», dice, «non appena esco di qui voglio godermi quello che ho perso con i miei bambini».
Le detenute di via Melloni hanno compiuto reati diversi. «Furti, furtarelli, in qualche caso spaccio», spiega Luigi Del Vecchio, coordinatore della polizia penitenziaria. Le pene vanno dai sei mesi ai 25 anni. E l’Icam è come una “livella”, dice. L’essere mamme le accomuna, indipendentemente dal reato che hanno compiuto.
Su dieci donne presenti all’Icam, solo una è italiana. La maggior parte viene dall’Est Europa e molte sono di etnia rom. Alcune di loro, così come i loro bambini, non hanno neanche un documento. «Pensavamo che l’Icam potesse diventare un posto dove le donne italiane e straniere potessero convivere insieme», spiega Mariana Grimaldi, coordinarice dello staff socioeducativo. «Ma le madri detenute italiane preferiscono affidare i propri figli alle famiglie o ai padri che restano fuori, mentre le straniere molto spesso non hanno alcun sostegno all’esterno e così scelgono di tenere i piccoli con sé».
Le giornate, all’interno dell’Icam, trascorrono tutte simili l’una all’altra. Di giorno le madri si occupano a turno delle pulizie dell’istituto. C’è chi spazza a terra, chi pulisce il bagno, chi l’infermeria, chi si occupa della lavanderia. E poi ci sono quelle che tutti chiamano le «attività». La scuola, prima di tutto, grazie alla qualche molte di loro, prima non alfabetizzate, hanno imparato a leggere e scrivere. Ma gli impegni non si fermano qui: c’è la scuola di sartoria, di pittura, di bijiotteria e anche di cucina. «Abbiamo costituito un servizio catering», racconta Marianna Grimaldi. «L’altro giorno abbiamo organizzato un pranzo in tribunale e qualcuna di loro mi ha detto: “Guarda tu se devo preparare una torta per il giudice che mi ha condannato a stare qui”».
La ludoteca
Giochi nella ludoteca
Si ride e si scherza anche tra le mura dell’Icam. Con dieci bambini piccoli, in questo posto tutti si riscoprono madri e padri. Sasha ha poco più di un anno. Tutti gli corrono dietro. «Ha imparato a camminare da pochi giorni», dice la mamma, una ragazza bionda e bella che non ha più di 25 anni. Tutti lo chiamano «faccia di gomma», dice Luigi, l’agente. Lo prende in braccio, lo fa saltare in aria. «Gli agenti sono le uniche figure maschili qui dentro», spiega Renata Vicari, assistente sociale dell’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna). «Così spesso diventano come dei papà per i bambini. C’è chi porta le caramelle, chi i cioccolatini». Ma bisogna stare attenti, precisano. «In una struttura come questa con così tante figure adulte, i bambini rischiano di non riconoscere le figure genitoriali. Corrono in braccio a tutti, cercano l’affetto di tutti. Così anche noi dobbiamo cercare di mantenere la giusta distanza».
Anche se non sempre è possibile. Soprattutto quando il bambino raggiunge l’età in cui deve separarsi dalla mamma. «In questi casi dobbiamo preparare sia la mamma sia il bambino all’evento, cominciare a parlargli del posto in cui andrà a vivere». Sono momenti forti e difficili. E tutti, tra agenti, educatrici, puericultrici, ammettono di commuoversi qualche volta. «Io ho lavorato anche a San Vittore», dice il comandante Del Vecchio. «Ma in carcere tu sei di là e io di qua. Qui invece no, si crea empatia».
In effetti, camminando tra i corridoi della struttura, si fa fatica a distinguere le madri detenute dalle agenti donne. C’è qualche bambino che dorme nelle stanze. Chi guarda la televisione sul divano e chi fa l’aerosol. «Queste sono le dieci detenute più fortunate d’Italia», dice il comandante. Tra qualche giorno ci sarà un nuovo arrivato. Una delle mamme è seduta mentre si accarezza il pancione. Sono tutti in attesa, soprattutto i secondini, che dovranno essere pronti a chiamre il 118. «Lei dice che nascerà il 12», racconta la dottoressa. E per un attimo ci si dimentica che anche il parto qui diventa un evento da programmare nei dettagli. Perché pur sempre in carcere siamo, ripetono tutti, quasi per ricordarselo. Bisogna programmare il ricovero della detenuta, accodarsi con l’ambulanza. «Ma se dovesse partorire prima della scadenza prevista la porteremo al pronto soccorso qui di fronte», dice il comandante.
I volti delle mamme sono tutti giovani. Eppure tra di loro c’è anche chi ha raggiunto la soglia dei dieci figli. «A Natale», racconta Marianna Grimaldi, «i bambini hanno fatto la recita e alcune mamme hanno avuto il permesso di seguire lo spettacolo. È stato molto bello, perché le altre mamme le hanno accolte come se niente fosse, come le madri dei compagni di classe dei loro figli e basta. Sono rimaste sorprese. Quando sono tornate erano tutte felici». Sprazzi di normalità di una maternità che non ha niente di normale. Soprattutto per i bambini. «“Torniamo all’Icam”, mi dicono i bimbi quando siamo fuori, quasi come fosse un cioccolatino», dice l’educatrice. «I bambini lo chiamano così. Ma non vogliamo che dicano “torniamo a casa”. Questa non è una casa, qui non c’è l’affetto familiare».
Perché siamo pur sempre in carcere. Nonostante le pareti colorate, la ludoteca, la biblioteca. «In questo posto colorato si vivono dolori enormi che non hanno nulla di colorato», dice l’assistente sociale. Un carcere, sì, «che però rispetta al massimo i diritti dei detenuti, in quanto mamme, in quanto donne e in quanto detenute». Eppure «non è facile stare all’Icam», spiega Marianna Grimaldi. «Perché noi qui alle detenute chiediamo tantissimo. Non è come stare in carcere, chiusi in una cella senza far nulla. Qui puntiamo alla rieducazione, come il carcere dovrebbe fare. Qui ci sono tante professionalità che lavorano per sole dieci detenute». E la maternità non è l’unico requisito. Per stare qui, nella struttura che tutta Italia invidia, le mamme devono anche impegnarsi e mantenere una buona condotta. E per molte questo può essere un problema. «Soprattutto se vengono da retaggi culturali in cui il concetto di famiglia, l’alimentazione, la cura e l’igiene dei bambini non sono fondamentali. Spesso i piccoli arrivano qui senza aver mai fatto una vaccinazione». E allora molte madri «si riscoprono mamme proprio all’interno di questa struttura, concentrandosi sul benessere dei propri piccoli».
Sulle pareti della biblioteca sono appesi tanti quadri. Tutti colorati. Li hanno realizzati le detenute durante il corso di pittura. Alcuni sono bellissimi. Molte di loro hanno deciso di partecipare a un concorso di pittura e ora aspettano l’esito. Anche Emina ne ha dipinto uno. «Ho disegnato un quadro con i miei figli mentre li portavo al parco», dice, «spero di farlo al più presto». Sarà questa la sua opera più bella.
Emina in biblioteca
I quadri dipinti dalla detenute