C’è una battuta ricorrente tra gli addetti ai lavori della Corte suprema americana. Predire una sentenza dei nove giudici è un po’ come leggere il futuro nelle foglie di té: non funziona mai, ma a tutti diverte e dunque molti ci provano. La posto in gioco a questa tornata è alta, quella che molti definiscono la battaglia più importante per i diritti dell’ultimo decennio: il matrimonio gay.
La partita si impernia su due fronti. Primo: proposition 8, una clausola inserita all’interno della costituzione californiana che definisce il matrimonio come «l’unione tra un uomo e una donna». Nel febbraio 2012 la Corte di appello del nono distretto californiano (quello di San Francisco) ha dichiarato proposition 8 incostituzionale nonostante la clausola fosse stata votata da un referendum popolare con 52 per cento dei voti a favore e 48 per cento contrari.
Secondo: la validità costituzionale del Defence of marriage act (Doma), una legge firmata nel 1996 dall’allora presidente Clinton che nega al governo federale il potere di riconoscere come un’entità fiscale avvantaggiata una coppia omosessuale sposata dal singolo stato della federazione (una coppia sposata eterosessuale ha invece diritto a numerosi sgravi).
Per tentare di dipanare la questione Linkiesta ha sentito David Strauss, docente di Legge ed esperto di Corte suprema presso la University of Chicago, e Linda McClain, anche lei docente di Legge e costituzionalista presso la Boston University.
Proposition 8. La clausola della costituzione californiana è la più contenziosa. Secondo Strauss e McClain lo scenario più probabile è che la Corte suprema decida di non decidere. Semplicemente i nove giudici supremi deliberano che non ci sono le condizioni per il litigo e il caso torna nelle mani del nono distretto californiano de facto creando le condizioni perché il matrimonio gay in California torni a essere un diritto.
Spiega McClain: «A un osservatore esterno può apparire strano che la Corte suprema decida di prendere in considerazione un caso e poi concluda che non ci sono le condizioni per un giudizio. È importante però ricordarsi che basta il voto di quattro dei nove giudici supremi perché la Corte sia obbligata a prendere un caso in considerazione».
Lo scenario più probabile dietro questa decisione, mormorano gli addetti ai lavori, è che i quattro giudici conservatori (Clarence Thomas, Antonin Scalia, John G. Robert, Samuel A. Alito) si siano mossi per mettere un freno alla sentenza troppo liberal della Corte d’appello di San Francisco.
Per ottenere la maggioranza alla Corte però, di voti ne servono cinque. E nei piani dei quattro giudici conservatori si dava per sicuro il voto del giudice Kennedy (scelto da Reagan e con una fama da conservatore). Verità è che questo è tutt’altro che certo. Kennedy è l’ago della bilancia e come fa notare Strauss «è probabile che voterà affinché il caso sia rispedito in California in modo che la proposition 8 non si trasformi in un precedente nazionale».
Le altre due opzioni della Corte sono quella di deliberare tout court che la proposition 8 non è costituzionale, o, all’opposto, dare l’ok alla clausola. Strauss e McClain concordano nel giudicare la prima opzione poco probabile. I giudici non vogliono creare un precedente che rischia di aprire le porte a tutti gli attivisti gay desiderosi di fare causa allo stato in cui risiedono.
Anche la seconda opzione è giudicata eccessiva. Le opinioni sui matrimoni gay in America sono divise e ideologizzate. La reazione dell’opinione pubblica a una decisione conservatrice della Corte è troppo incerta e il rischio troppo alto.
Doma. La decisione su Doma è la meno contenziosa. Nota Strauss: «Su questo caso c’è una sorta di convergenza tra i giudici più liberali e quelli più conservatori». Per i più liberal sarebbe una vittoria del movimento Lgbt (Lesbian, gay, bisexual, and transgender community) obbligare il governo federale a trattare – in termini fiscali – le coppie omosessuali sposate allo stesso modo delle coppie eterosessuali sposate.
Per i giudici conservatori, in cui i valori familiari si mischiano con una vena libertaria, l’idea che il governo federale abbia voce in capitolo sulle decisioni dei singoli stati è poco attraente. Dichiarare Doma non costituzionale garantisce l’indipendenza dei singoli stati dal governo federale. Anche in questo caso il giudice Kenedy è protagonista e ago della bilancia. I bookmaker concordano sul suo probabile voto contro Doma.
Il problema dell’opinione pubblica
Molto si è detto sul cambiamento in corso nell’opinione pubblica americana. Un grafico pubblicato dal blog di Nate Silver sul New York Times mostra la media di consensi e dissensi sul matrimonio gay dal ’96 a oggi.
I dati mostrano come più del 50 per cento degli americani sembra essere a favore del matrimonio gay. Che necessità c’è quindi, si chiedono i giudici conservatori, di un intervento istituzionale sulla questione se i cittadini hanno già maturato un consenso maggioritario sulla questione? Ci sono diversi problemi da tenere in considerazione. Il primo è che molti degli stati più popolosi (California e New York) sono già a favore del matrimonio omosessuale, ma non sono rappresentativi del paese e degli stati centrali meno popolati e più conservatori.
Il secondo problema è un fenomeno noto in statistica come «il problema Bradley». In altre parole a causa della rigorosa political correctness (correttezza politica) americana l’intervistato dichiara di essere a favore del matrimonio gay anche quando non lo è. Il dato sui consensi è dunque da prendere con le pinze perché non è detto che la maggioranza del paese sia davvero a favore delle unioni omossessuali.
Come concludere? Nonostante le incertezze è innegabile che l’opinione pubblica si sta spostando verso il Si. Al momento nove stati (più il distretto di Washington Dc) permettono agli omosessuali di sposarsi. Non solo. Altri nove stati permettono le unioni civili.
Qualunque sarà la decisione della Corte suprema – considerando che lo scenario più probabile è che la Proposition 8 sia rimandata in California e Doma sia invece dichiarato incostituzionale – un cambiamento è in atto. Se non sarà a giugno (data in cui la Corte si pronuncerà) sarà poco più in là.