Il 27 dicembre del 2012 il signor Oreste lo ricorda bene. Non perché mancavano solo quattro giorni al nuovo anno, né perché aveva ricevuto un regalo di Natale inaspettato. «Quel giorno sono stato informato che non sarei stato più richiamato dal mio datore di lavoro», racconta. «Mancava un mese per raggiungere il tetto massimo dei 36 mesi previsti dalla legge Fornero per i contratti a termine». Oltre quel limite, l’obbligo di sottoscrivere un contratto a tempo indeterminato. Ma l’azienda, che produce corde, reti e spaghi di plastica, ha deciso di non “impegnarsi” con Oreste. E dopo dieci anni di “somministrazione” a singhiozzo, a lui ha preferito un altro operaio. Da poter usare a termine, come meglio crede. Fatta la legge, trovato l’inganno.
Quello di Oreste, nel pacchetto Treu si chiamava lavoro interinale. Poi la legge Biagi ha optato per l’espressione “somministrazione di lavoro”. Ma la sostanza non cambia: si tratta di un rapporto di lavoro temporaneo che coinvolge la persona che cerca lavoro, l’impresa che lo richiede e l’agenzia di lavoro interinale, oggi chiamata “agenzia per il lavoro”, che “smista” i dipendenti quando l’impresa lo richiede. Ora la riforma Fornero ha introdotto due novità. A parte la libera stipula del contratto di somministrazione a tempo determinato per 12 mesi senza indicazione della causale, la legge ha stabilito che i mesi di lavoro “somministrato” valgono nel computo del tetto massimo dei 36 mesi per la conversione del rapporto di lavoro a termine in contratto a tempo indeterminato.
In tutti questi anni, quando l’azienda aveva bisogno, Oreste veniva chiamato. Pronto, puntuale, per fare quello che lui chiama il “ciclo continuo”, cioè «quattro mattine, quattro pomeriggi, quattro notti» accanto agli altri operai con il «posto fisso». Che, confessa, «di certo venivano trattati meglio di noi precari». Lo stipendio dipendeva dalle ore totali “lavorate”:«Dai 1.300 ai 1.500 euro», dice. Turni massacranti ma che permettevano di mandare avanti la famiglia. Anche perché, aggiunge, «il negozio di abbigliamento aperto da mia moglie otto anni fa, con la crisi che c’è non va per niente bene».
Con la stessa azienda, Oreste ha sottoscritto un contratto a termine dal 2002 al 2008 e un contratto di somministrazione dal 2008 fino a quel 27 dicembre dello scorso anno. «Noi precari siamo abituati a lavorare sei sette mesi, e poi ad avere periodi di fermo anche abbastanza lunghi tra un contratto e l’altro», racconta lui, 46 anni, una moglie e un figlio. «A dicembre, però, ho saputo che avevano chiamato tre o quattro colleghi e non me. Mi hanno detto: “Poi ti devo prendere fisso e un fisso non ci servi”».
Dopo il danno, anche la beffa. «Sono andato dai sindacati», racconta Oreste, «mi hanno detto che avrei potuto fare ricorso e avrei vinto al 90 per cento, ma ormai erano passati i 60 giorni utili per farlo». Un limite che, però, da gennaio 2013 è stato allungato fino a 270 giorni. «Mi bastava lavorare un solo giorno nel 2013», si ripete Oreste tra sé e sé. E da quel 27 dicembre è partita la ricerca di un lavoro. «Sto cercando in lungo e in largo, ma le aziende predilogono o i lavoratori giovani o i lavoratori anziani, grazie agli incentivi previsti dalla riforma. E anche i lavoratori in cassa integrazione mi passano avanti. Io invece resto dietro, perché non sono né giovane né anziano e mi trovo in un limbo senza via d’uscita».
Trimestre dopo trimestre, sembra che gli obiettivi della riforma Fornero si stiano allontanando. L’ultima bocciatura è arrivata nei giorni scorsi da Confartigianato, che con l’istituto Ispo ha sondato un campione dei suoi iscritti. Il contratto tempo indeterminato non decolla, le aziende sono spaventate e i dati sono preoccupanti. Il 65% delle imprese interpellate ha dichiarato che la riforma ha avuto effetti negativi sull’occupazione e sulla crescita. Anche se solo l’8% ha indicato le regole del mercato del lavoro e la burocrazia come causa del calo delle assunzioni. Ma il 59 per cento degli artigiani intervistati dice che non rinnoverà i contratti o che è ancora in dubbio su cosa fare. Calano i contratti a tempo determinato e anche quelli a progetto. Ma il picco maggiore si registra per i contratti a chiamata, che nel primo semestre della riforma si sono ridotti del 37,4% rispetto al secondo semestre del 2011.
In questo scenario, la disoccupazione è cresciuta: era al 10,6% nel luglio del 2012, mese di entrata in vigore della legge, ora è all’11,7%, con un aumento più che doppio rispetto alla zona euro. E l’occupazione si è ridotta: c’erano 23 milioni di occupati prima, ce ne sono 22,7 ora. Il che vuol dire 1.641 occupati in meno al giorno, un calo dell’1,3%, il peggior risultato degli ultimi nove anni. La precarietà, però, è rimasta quel che era. Anzi, come il caso di Oreste racconta, sempre più spesso per sfuggire alla disoccupazione non c’è nemmeno un contratto atipico.
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