Settecentoventi miliardi di yuan (circa 90 miliardi di euro), per un aumento del 10,7 per cento anno su anno. Sono questi i numeri piatti del budget cinese per la difesa, comunicato in settimana dalla leadership di Pechino nel corso del “Lianghui”, la doppia seduta parallela dei massimi organi consultivi dello Stato. È un aumento a doppia cifra nominalmente superiore alla crescita del Pil prevista per il 2013: 7,5 per cento. Così, la notizia ha creato un bel trambusto all’estero: termine volutamente generico per reazioni che vanno dalle preoccupazioni dei Paesi che confinano con il Dragone al gaio rimbalzo dei mercati.
I mercati, appunto. Dall’altra parte dell’Oceano, il Dow Jones ha risposto con un’impennata che vede al top i prezzi del petrolio e del rame. Il deficit spending alla cinese, che passa anche attraverso il riarmo, sembra fare un po’ comodo a tutti.
“Keynesismo di guerra” è un termine che ricorre spesso per definire la politica economica in base alla quale si affrontano le crisi economiche con le spese militari. Negli Stati Uniti, la creazione di domanda attraverso le spese del Pentagono è ormai una costante.
In Cina, il pacchetto di stimoli varato dal governo nel 2008 e destinato soprattutto a lavori pubblici fece da scudo contro la crisi che arrivava da Occidente. Oggi, possiamo parlare di un simile stimolo focalizzato però sulle spese militari?
Prima di tutto va detto che, con il suo 10,7 per cento, il ritmo di crescita del budget militare cinese è sceso dall’11,2 dello scorso anno e dal 12,7 di quello precedente. Ma questo è interpretato dagli analisti soprattutto in termini politici: il tentativo di sminuire la “minaccia cinese” nei confronti dei vicini.
In chiave economica, la riduzione del ritmo può avere molte spiegazioni: dall’adeguamento al rallentamento della crescita al fatto che progressivamente, mano a mano che le lacune si colmano, c’è una necessità minore di investire.
È più significativo osservare che mentre il Pil previsto è al netto dell’inflazione, quindi reale, le spese militari sono nominali. Se si prende per buona la previsione del governo cinese che attesta l’inflazione per il 2013 al 3,5 per cento, ne consegue che l’aumento del budget per la difesa è del tutto in linea con la crescita del Pil.
Sull’altro piatto della bilancia va però messo che i dati ufficiali cinesi sollevano molti dubbi e molte voci riconducibili alla difesa non sono inserite nel budget. Ad esempio, la ricerca tecnologica finalizzata alla modernizzazione degli armamenti è inserita nel bilancio del ministero della Scienza e della Tecnologia. Alcuni osservatori sostengono invece che i costi di mantenimento delle guarnigioni di stanza nelle province siano a carico dei governi locali, esclusi quindi dal calcolo. Altri ancora ritengono che anche l’importazione di armi tecnologicamente avanzate, soprattutto dalla Russia, non sia contabilizzata nel budget della Difesa.
Per questo motivo, l’International institute for strategic studies di Londra ritiene che le spese cinesi per la Difesa siano in realtà di circa il 40 per cento superiori a quanto dichiarato. Il che, per altro, significa meno del 2 per cento del Pil, molto meno di quanto spendono non solo gli Usa ma, giusto per restare nell’area del Pacifico, anche l’Australia.
Molti tendono a confrontare le spese militari Usa e cinese anche in termini assoluti, ma questo ha poco senso. Sì, è vero, il 720 miliardi di yuan previsti ufficialmente corrispondono a circa 116 miliardi di dollari, mentre il Pentagono ne spende 614 miliardi (e gli Usa partono già da un notevole vantaggio militare). Tuttavia, al netto delle materie prime che costano più meno uguale ovunque, un miliardo speso in Cina “vale” di più di un miliardo speso negli Usa: il potere d’acquisto dovrebbe essere calcolato sulla realtà locale.
Qui il discorso si complica, perché non ci sono indici dei prezzi affidabili per le spese militari. Secondo Tom Holland, analista economico del South China Morning Post, se si utilizzano la teoria della parità dei poteri d’acquisto e i tassi di cambio calcolati dal Fondo Monetario Internazionale, il budget cinese per la Difesa dovrebbe essere rivalutato del 50 per cento. E se si considera la “spesa nascosta” di Pechino – aggiunge – il valore reale del budget arriverebbe a circa il doppio di quanto dichiarato ufficialmente. «Anche allora, però, esso ammonterebbe comunque a meno del 40 per cento del bilancio delle forze armate Usa per quest’anno», conclude Holland.
A parte il fatto che la Cina non è al momento impegnata in alcun conflitto, c’è margine per parlare comunque di un «keynesismo di guerra» di Pechino? Sembra proprio di no. Sarebbe forse più corretto parlare di un’economia che nel suo complesso, per rilanciarsi, punta sempre molto su un deficit spending nel quale la Difesa, ormai, è una stabile voce di capitolo.
Certo, per le dimensioni della Cina i mercati internazionali continueranno a beneficiare delle spese per le materie prime generate “anche” dal riarmo di Pechino. Che molti, anche al di qua della grande Muraglia, sperano diventi sempre più trasparente.