I bagagli sono sulle panchine, ai bordi dei binari, in attesa di essere caricati su un treno; e la destinazione, in buona parte dei casi, poco importa. I profughi della guerra libica, dal primo marzo, non rappresentano più un’“emergenza” per il nostro Paese: dalle prime ore di venerdì, le strutture di accoglienza, diventate case per migliaia di persone nell’ultimo anno e mezzo, sono vuote.
In Puglia, a Carovigno, alle 10, i pullman della Prefettura sono passati a prelevare gli ospiti dei centri per condurli alla stazione ferroviaria di Brindisi. E, come a riprodurre fedelmente una metafora, è proprio tra i binari che decidono del loro destino. Da due giorni, terminato ufficialmente l’impegno del governo, delle Prefetture e della Protezione Civile, l’emergenza è tutta per loro. In questo drammatico passaggio di testimone, che solleva da ogni responsabilità le istituzioni italiane, ai 13.000 richiedenti asilo, fino a giovedì scorso nei centri di accoglienza, non sono rimasti che 500 euro. La somma, stanziata dallo Stato italiano come “buonuscita”, servirà loro per vivere, o meglio, sopravvivere fino a data da destinarsi. E quei 500 euro, ora, devono bastare per tutto: mangiare, dormire ed, eventualmente, viaggiare.
Tra i binari, i gruppi più numerosi sono costituiti da nigeriani. “Siamo qui perché qui ci hanno portati. Forse hanno scelto la stazione perché vogliono che andiamo via. Io prenderò il treno per Padova – racconta Frederick , seduto affianco alla sua unica valigia – e andrò a stare un po’ a casa di alcuni amici. So che non c’è lavoro né per noi né per gli italiani, ma devo provare a fare qualcosa. Non posso rimanere qui a morire”.
Kelvin, anche lui nigeriano, 20 anni, look da rapper americano, non sembra sopraffatto dagli eventi. “Non possiamo fermarci – dice – e piangere per quello che sta succedendo. E’ vero, non abbiamo scelta. Da quel viaggio che ci ha portati dalla Libia fino a qui, la nostra vita non è stata facile, ma dobbiamo reagire. Con gli altri ragazzi nigeriani, siamo un gruppo unito e ci facciamo forza a vicenda. Bisogna avere la mentalità aperta e trovare una soluzione. Noi ci stiamo provando, ma ci sono altri che proprio non ce la fanno”.
Gli “altri” sono i profughi che arrivano dal Mali. Loro, a differenza dei nigeriani, se ne stanno in disparte, hanno un’aria mesta e parlano controvoglia. I loro volti sono lo specchio della loro condizione: abbandonati, in balia degli eventi, in un Paese del quale non conoscono nemmeno la lingua. Omar, 23 anni, è di Timbuctù e aspetta, solo con i suoi bagagli, sul binario 1 della stazione. Tutta l’angoscia della sua attesa affiora quando ammette che è lì, ma non salirà su nessun treno. Omar si trova affianco ad un binario, ma potrebbe essere in qualsiasi altro posto. “Non so cosa fare – spiega in un francese condito da qualche parola italiana – e, probabilmente, rimarrò qui. Oggi sono andato via da Lecce. Eravamo in 13, in una piccola casa che ci ha ospitati fino a due giorni fa. Alcuni sono rimasti in quella zona, io ho deciso di spostarmi, ma non ho destinazioni e non ho nessuna idea sul mio futuro”.
Intanto, mentre Brindisi è diventata crocevia di tanti destini diversi, a Taranto si fatica a trovare una soluzione per chi è rimasto. “Ci stiamo provando in tutti i modi – ammette con rammarico il presidente dell’associazione Babele Enzo Pilò –, ma ci sentiamo soli. Abbiamo proposto più volte al Comune di Taranto, nel corso del tempo, che ci aiutasse con la realizzazione di un dormitorio, ma siamo arrivati ad oggi senza essere stati ascoltati. Eppure, lo sapevano tutti che questa giornata sarebbe arrivata. Con quasi 50 persone che non sanno dove dormire, per noi è il problema è diventato insormontabile. La notte scorsa siamo riusciti a trovare una sistemazione improvvisata, al centro sociale occupato Archeo Tower, ma hanno dormito tutti per terra; non avevamo neanche una brandina. Tra loro, c’era anche un ragazzo che aspetta un trapianto di fegato ed era a terra, proprio come gli altri”.
Il disagio sociale cresce ora per ora: coloro che non sono riusciti a programmare temporaneamente il loro futuro, a crearsi un’aspettativa, ad avere una speranza, sono i soggetti più deboli; proprio quelli che ora, paradossalmente, sono rimasti senza niente e nessuno. Ci sono persone che soffrono di patologie gravi e poi ci sono quelle che si sono ammalate durante questi 20 mesi nei centri di accoglienza: depressione, autolesionismo, alcolismo e tentativi di suicidio. Ad aggravare una situazione già molto critica, c’è un’emergenza abitativa dilagante. I 13.000 profughi dell’emergenza Nord Africa si vanno a sommare ai circa 50.000 immigrati che, nel nostro Paese, sono in costante ricerca di un alloggio. In Italia, il 15% degli immigrati senza una casa propria dorme a casa di amici o parenti, il 10% in posti letti a pagamento, il 6% in strutture di accoglienza; il resto si arrangia tra baracche, stazioni, edifici pericolanti, ponti, portici ed, extrema ratio, carceri. Quello che molti dei profughi in strada da ieri non sanno – considerata la tendenza – è che il “problema casa” diventa ancor più grave nelle grandi città e nel Nord Italia. Basti pensare che la ripartizione degli immigrati sull’intero territorio italiano – secondo il rapporto Migrantes 2012 della Caritas – è del 63,4% al Nord, del 23,8% al Centro, e del 12,8% al Sud. Come se non bastasse, gli immigrati in cerca di affitto devono, in molti casi, fare i conti con alcune forme di “discriminazione”: i proprietari di case non affittano a stranieri, specie se di colore, senza adeguate garanzie; si pretendono costi aggiuntivi, si richiede un pagamento a persona, anziché per l’intera abitazione.
Adesso, quella che fu “emergenza Nord Africa” si sta, pian piano, trasformando in un allarme per i Comuni, costretti a dover togliere i profughi dalle strade e trovare loro una sistemazione degna. Con il passare del tempo, quando i gruppi più corposi di migranti si saranno dissolti, ognuno porterà l’emergenza con sé, riducendo ad un’odissea personale quello che, fino a ieri, è stato il dramma di tanti. In questo modo, lontano dal clamore delle proteste di Rosarno o Nardò, anche la percezione del problema, da parte di cittadini e istituzioni, verrà inevitabilmente meno. E si dimenticheranno quei 13.000 destini, già uniti da una guerra, che si incrociano per la seconda volta sui binari di una stazione, aspettando – forse – un treno.